Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 97

Testo di pubblico dominio

dell'Università; e mi parve che non fossero né i più esemplari né i più modesti che là frequentavano fra una lezione e l'altra. “Basta! faranno forse per seguire le pecorelle smarrite, e invogliarle a farsele venir dietro!” io pensai allora. Ma non ebbi la benché minima voglia di stringer amicizia con esso loro come l'avvocato mi consigliava; come anche accettai con un inchino l'invito fattomi dalla Marchesa di andar qualche volta alla sua conversazione ove avrei passato un paio d'ore lontano dai pericoli, in mezzo a gente sicura e timorata di Dio. L'inchino voleva dire: “Grazie, ne faccio senza della sua conversazione!”. Ma l'avvocato si affrettò a rispondere in mio nome che io era gratissimo alla cortesia della signora Marchesa e che vi avrei corrisposto col farmi vedere in sua casa il più spesso che me lo avrebbero concesso le mie occupazioni. Io fui lì lì per soggiungere qualche sproposito, tanto mi mosse la rabbia quell'uso che si faceva a capriccio altrui della mia volontà. Ma l'avvocato mi rabbonì con un'occhiata, e aggiunse poi sottovoce: — La marchesa è molto amante della gioventù; bisogna saperle grado delle sue ottime intenzioni; e compatirla ne' suoi difetti pel gran bene che la può fare! Insomma in onta a queste belle chiacchiere io mi tolsi di casa dell'avvocato ben deliberato di non immischiarmi più né de' suoi pranzi, né della conversazione della Marchesa. Pei due giorni seguenti ne ebbi peraltro il vantaggio di trovar più saporito il minestrone del collegio: con una libbra di pane affettatavi dentro mi parve di essere a un banchetto reale. La mia camera godeva almanco d'un bel sole e poteva alzar gli occhi senza incontrarli negli sguardi gatteschi del sollecitatore. I due scolari veronesi si abbatterono in me qualche giorno dopo nei corritoi dell'Università, ma sembravano così poco vogliosi di appiccar parola con me come io di avvicinarmi a loro. Ne domandai conto a qualcuno, e seppi che erano i più beoni e scapestrati dello Studio. Studiavano medicina da sette anni e non avevano ancora ottenuto la laurea, e sprovvisti di mezzi di fortuna, vivevano d'inganno e di rapina alle spalle del prossimo. Io compiansi l'avvocato Ormenta di saperlo zimbello di cotali ghiottoni; ma quando mi intesi di aprirgli gli occhi sul loro conto egli mi accolse assai male. Rispose che eran calunnie, che si maravigliava molto come io ci dessi mente, e che attendessi a scoprire e a distruggere i vizii dei cattivi, non ad esagerare i difettucci dei buoni. Io cominciai a credere che la fede del buon avvocato fosse molto più pura della sua morale; poiché se quelli erano difettucci non capiva più quali fossero i vizii ch'io era destinato a combattere. CAPITOLO NONO L'amico Amilcare disfà la conversione del padre Pendola e mi rimette allo studio della filosofia. Passo per Venezia ove Lucilio seguita ad insidiare la Repubblica e la pace della Contessa di Fratta. Mia eroica rinunzia a favore di Giulio Del Ponte. Un viluppo di strane vicende intorno al 1794 dà in mia mano la cancelleria della giurisdizione di Fratta ove comincio col prestare segnalati servigi. Fra coloro cui doveva premere assaissimo all'avvocato Ormenta e al padre Pendola di convertire io avea conosciuto taluno che mi andava a sangue più assai dei due veronesi, miei alleati. Cominciai a fare qualche escursione nel campo nemico a profitto dell'avvocato; poi ci trovai il mio conto, e da ultimo scopersi tanta differenza fra il male che si diceva di quei giovani e quello che era infatti, che presi a dubitare della buona fede dell'avvocato, e della convenienza dell'ufficio affidatomi. Ch'io cercassi la quiete ai dolori che mi tormentavano nell'adempimento di più alti doveri, andava benissimo; che cercassi di scordare un amore indegno e sciagurato benché fervidissimo, alzando l'anima nell'adorazione di quelle grandi idee che sono la poesia dell'umanità, in ciò pure non vedeva che bene. Ma che il mio ossequio a quelle grandi idee dovesse ridursi a una fintaggine continua, ad uno spionaggio indecoroso, che quei miei doveri così alti così sublimi dovessero scader tanto nella pratica, cominciava a metterlo in dubbio. Di più io aveva fatto la prova come il padre Pendola voleva, ma non ne era rimasto gran fatto contento. La mia mente si era svagata, ma l'anima era ben lungi da quell'ideale contentamento che la compensa d'ogn'altro rammarico. In poche parole, il cervello era occupato ma non il cuore, e questo, attraversato nel suo amore d'una volta, e vuoto d'ogni altro affetto, mi dava grandissima noia co' suoi inutili battiti. Alla prima mi era confusamente infervorato all'ardore altrui, ma poi, sia che quest'ardore fosse fittizio, sia che in me non avesse trovato materia da alimentarsi, m'era sfreddato talmente che non mi conosceva più per quello d'una volta. Quella continua manovra di passi compassati, d'antiveggenze, d'accorgimenti, di calcoli si affaceva male ad un'anima giovane, e bollente. Aspirava a qualche cosa di più vivo, di più grande: capiva ch'io non era fatto per le estasi ascetiche, e ho già narrato in addietro quanto fossi debolino in punto a fede. Figuratevi quanti sforzi facessi per rinforzarmi!... Ma l'avvocato Ormenta, anziché aiutarmi a ciò, mi contrariava sempre colle sue mene un po' troppo mondane. Stava bene che la meta fosse alta spirituale e che so io; ma io la perdeva di vista, e anch'essi non se ne ricordavano che quando io ne chiedeva conto. Uno studente trevisano, un certo Amilcare Dossi, s'era stretto a me con molta intrinsichezza; egli aveva un ingegno forte e arditissimo, un cuore poi che oro non bastava a pagarlo. Con costui andavamo spesso ragionando di metafisica e di filosofia, perché io avea dato il capo in quelle nuvole e non sapea più liberarmene; egli poi ci studiava da un pezzo e potea darmi scuola. Dopo qualche giorno m'accorsi che egli era proprio un tipo di coloro che il padre Pendola definiva avversatori spietati d'ogni idealità e d'ogni nobile entusiasmo. Metteva tutto in dubbio, ragionava su tutto, discuteva tutto. E non pertanto mi maravigliava di rinvenire in lui un amore di scienza e un fuoco di carità che mi parevano incompatibili coll'arida freddezza delle sue dottrine. Finii col fargli parte di questa mia maraviglia ed egli ne rise assaissimo. — Povero Carlino! — diss'egli — come sei indietro! Ti maravigli ch'io mi sia preso di così violento affetto per quelle scienze che vado disseccando alla maniera dei notomisti? Gli è, caro mio, che l'amore della verità vince tutti gli altri in purità ed in altezza. La verità, per quanto povera e nuda, è più adorabile, è più santa della bugia incamuffata e suntuosa. Perciò ogni volta ch'io le tolgo di dosso qualche fronzolo, qualche orpellatura, il cuore mi balza nel petto, e la mia mente si cinge di una corona trionfale! Oh benedetta quella filosofia che mortali, deboli, infelici pur c'insegna che possiamo esser grandi nell'uguaglianza, nella libertà, nell'amore!... Ecco il mio fuoco, Carlino; ecco la mia fede, il mio pensiero di tutti i momenti! Verità ad ogni costo, giustizia uguale per tutti, amore fra gli uomini, libertà nelle opinioni e nelle coscienze!... Qual essere ti parrà più grande e più felice di quello che tende con ogni sua forza a far dell'umanità una sola persona concorde, sapiente, e contenta per quanto lo permettono le leggi di natura?... Oggi poi, oggi che queste idee ingigantiscono, e pesano, fremendo sulla sfera riluttante dei fatti, oggi che io veggo affievolirsi sempre più quella nebbia che le nascondeva agli occhi degli uomini, chi più felice di me?... Oh questa, questa, amico, è la vera calma dell'animo!... Sollevati una volta a quella fede libera e razionale, né fortune avverse, né tradimenti, né dolori potranno turbare la serenità dello spirito. Son forte, incrollabile in me, perché credo e spero in me e negli altri! Figuratevi! Durante questa professione di fede che rispondeva sì bene ai miei bisogni,

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Argomenti: campo nemico,    amore indegno,    capitolo nono,    ingegno forte,    violento affetto

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