Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 34

Testo di pubblico dominio

collo che corrispondevano ad altrettanti fatti o frivoli o gravi o soavi o dolorosi, ma per me sempre memorabili, della mia vita. Quel museo cresceva sempre, e lo conservava con tanta religione quanta ne dimostrerebbe un antiquario al suo medagliere. Se voi lettori foste vissuti coll'anima mia, io non avrei che a far incidere quella lunga serie di minutaglie e di vecchiumi, per tornarvi in mente tutta la storia della mia vita, a mo' dei geroglifici egiziani. E per me io la leggo in essi tanto chiara, come Champollion lesse sulle Piramidi la storia dei Faraoni. Il male si è che l'anima mia non diede mai ricetto al pubblico, e così, per metterlo a parte de' suoi segreti, come le ne è venuto il talento, la deve sfiatarsi in ragionamenti e in parole. Me lo perdonerete voi? Io spero di sì; almeno in grazia dell'intenzione la quale è di darvi qualche utilità della mia lunga esperienza; e se cotale opera mi è di alcun diletto o sollievo, vorreste ch'io me ne stogliessi per una pretta mortificazione di spirito? — Lo confesso, non son tanto ascetico. — Il fatto si è che quei simboli del passato sono nella memoria d'un uomo, quello che i monumenti cittadini e nazionali nella memoria dei posteri. Ricordano, celebrano, ricompensano, infiammano: sono i sepolcri di Foscolo che ci rimenano col pensiero a favellare coi cari estinti: giacché ogni giorno passato è un caro estinto per noi, un'urna piena di fiori e di cenere. Un popolo che ha grandi monumenti onde inspirarsi non morrà mai del tutto, e moribondo sorgerà a vita più colma e vigorosa che mai: come i Greci, che se ebbero in mente le statue d'Ercole e di Teseo nel resistere ai Persiani di Serse, ingigantirono poi nella guerra contro Mahmud alla vista del Partenone e delle Termopili. Così l'uomo, religioso al memoriale delle sue fortune, non perde il tempo che scorre; ma riversa la gioventù nella virilità e le raccoglie poi ambedue nello stanco e memore riposo della vecchiaia. È un tesoro che s'accumula, non son monete che si spendono giorno per giorno. Del resto questa pietosa abitudine mi parve sempre indizio d'animo dabbene; il tristo nulla ha da guadagnare e tutto da perdere nel ricordarsi; egli s'affanna a distruggere non a conservare le traccie delle sue azioni, perché i rimorsi pullulano da ognuna di esse, come gli uomini dai denti seminati da Cadmo. Alle volte io temetti che con tale usanza si venisse a porre nella vita un soverchio affetto, e che il culto del passato significasse avidità del futuro. Ma se è così in taluno, non è certo sempre né in tutti; del che sono io la prova. Chi raccolse nel suo pellegrinaggio e tenne sol conto delle gemme e dei fiori, si avvicinerà forse tremando a quel varco dove i gabellieri inesorabili lo spoglieranno per sempre dell'allegro bottino; ma se si affidarono al sacrario delle rimembranze i sorrisi e le lagrime, le rose e le spine, e tutta la varia vicenda della sorte nostra ci si schiera dinanzi per via di figure e d'emblemi, allora lo spirito s'adagia rassegnato nel pensiero dell'ultima necessità; e i gabellieri gli sembrano inesorabili insieme e pietosi. La va secondo l'indole di chi ha raccolto ed ordinato il museo; poiché mio pensiero è che la fortuna nostra sia scritta profeticamente nell'indole. Essa è la regola interna secondo cui le cose esterne hanno questo o quel valore; e che dai propri modi di essere giudica la vita o un ozio, o un piacere, o un sacrifizio, o una battaglia, o una modalità. Chi falla nel giudizio deve o rimediarvi colla convinzione nell'errore, o espiare la propria cecità col disperarsene. E molto facilmente chi stimi la vita un'occasione di piaceri non la stimerà più tale al momento d'andarsene. Quella ciocca di capelli neri ineguali e avviluppati, che serbano ancora i segni dello strappamento, furono come la prima croce appesa a segnare lo spazio vuoto d'un giorno nel sacrario domestico della memoria. E sovente venni poi a pregare, a meditare, a sorridere, a piangere dinanzi a quella croce, dal cui significato misto di gioia e d'affanno potevasi forse pronosticar fin d'allora il tenore di quei godimenti acuti, scapigliati e convulsi che mi dovevano poi logorar l'anima e fortunatamente rinnovarla. Quella ciocca di capelli restò l'A del mio alfabeto, il primo mistero della mia Via Crucis, la prima reliquia della mia felicità; la prima parola scritta insomma della mia vita; varia com'essa, e quasi inesplicabile come quella di tutti. Certo fin dal primo istante io ne presentii l'importanza perché non mi pareva aver ripostiglio tanto sicuro ove nasconderla. L'avvoltolai per allora in una pagina bianca strappata dal mio libro di messa e la misi fra il letto ed il pagliericcio. Cosa strana assai! poiché mi si parò alla mente il valore inestimabile di quei pochi capelli, essi mi bruciavano le dita. Non so se fosse paura di perderli e di esserne privato, o ribrezzo istintivo dalle tremende promesse che significarono poi. — Io li aveva già nascosti, e stava cheto cheto fingendo di dormire, quando capitò su Martino, il quale vedendomi addormentato tolse la lucernetta per sé, e si ritrasse nella sua stanza. Poi a poco a poco la finta di dormire mi si volse in sonno vero, ed il sonno in un ghiribizzo continuo di sogni, di fantasmagorie, di trasfiguramenti, che mi lasciò di quella notte l'idea lunga lunga d'un'intera vita. Che il tempo non si misurasse, come pare, dai moti del pendolo, ma dal numero delle sensazioni? Potrebbe essere; e potrebbe esser del pari che una tal questione si riducesse a un gioco di parole. Io certo vissi alle volte nel sogno di un'ora lunghissimi anni; e mi parve poter spiegare questo fenomeno assomigliando il tempo ad una distanza ed il sogno ad una vaporiera. I prospetti sono gli stessi ma passano più rapidi; la distanza non è diminuita ma divorata. La mattina mi svegliai con tanta gravità addosso, che mi invogliava di credermi un uomo addirittura, così lunga età mi pareva essersi condensata nelle ultime ventiquattr'ore da me vissute: e le memorie del giorno prima mi passarono innanzi chiare ordinate e vivaci come i capitoli d'un bel romanzo. I dispetti della Pisana, le smorfie dei bei cugini, il mio abbattimento, la fuga, il risvegliarsi in riva al canale, il guazzo periglioso di questo, la gran prateria, il giungere sull'altura, le meraviglie di quella scena stupenda di grandezza, di splendore, e di mistero; il cader delle tenebre, i miei timori, e il correre traverso la campagna, e lo scalpitarmi a tergo del cavallo, e l'uomo dalla gran barba che m'avea tolto in groppa; il galoppo sfrenato traverso l'oscurità e la nebbia, le sculacciate di Germano sul primo giungere a Fratta, quegli altri martirii della cucina, e quello spiedo e quella Contessa, e la mia fermezza di non voler disobbedire alla raccomandazione di chi m'avea reso un servigio ad onta del tremendo castigo minacciatomi; la carezza della Clara e le parole del signor Lucilio, le mie smanie, le disperazioni poiché fui coricato, e l'apparimento in mezzo a queste della Pisana, della Pisana umile e superba, buona e crudele, sventata bizzarra e bellissima secondo il solito, non vi pare che ce ne fossero troppe pel cervello d'un bambino? E lì in un foglietto di carta sotto il pagliericcio io aveva un talismano che per tutta la vita mi avrebbe ravvivato a mio grado tutto quel giorno così vario così pieno. Allora, risovvenendomi specialmente della parlata del signor Lucilio, divisai trarne profitto, e presi a chiamar Martino con quanta voce aveva in gola. Ma il vecchio m'avrebbe fatto squarciare, senza che il suo timpano si risolvesse ad avvertirlo delle mie grida; balzai dunque dal letto, e andai nella sua camera che appunto l'era sul finir di vestirsi, e gli dissi che io mi sentiva un gran mal di capo, e che per tutta la notte non avea chiuso occhio, e che mi chiamassero il dottore perché avea gran paura di morirne. Martino mi rispose ch'era pazzo, e che mi ricoricassi quietino e che egli andrebbe intanto

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Argomenti: valore inestimabile,    ribrezzo istintivo,    cotale opera,    memore riposo,    sol conto

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