Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 122

Testo di pubblico dominio

trattare col Bonaparte sui cambiamenti nella forma del governo. Il Pesaro, indignato di sì vigliacca deliberazione, proruppe colle lagrime agli occhi in parole di compassione sulla rovina della patria, già sicura; e dichiarò di voler partire quella notte stessa da Venezia per ritirarsi fra gli Svizzeri. Il che egli non fece poi, e credo che l'andasse per le poste a Vienna. Davvero che a me non basta l'animo di palliare per un misero orgoglio nazionale la viltà buffonesca di tutte queste scene. Raccolgono esse un grande e severo insegnamento. Siate uomini se volete esser cittadini; credete alla virtù vostra, se ne avete; non all'altrui che vi può mancare, non all'indulgenza o alla giustizia d'un vincitore, che non ha più freno di paure e di leggi. Il primo maggio colla mia toga e la mia perrucca io entrai nel Maggior Consiglio a braccetto del nobiluomo Agostino Frumier, secondogenito del Senatore. Il primo apparteneva al partito di Pesaro e sdegnava far comunella con noi. Quel giorno il consesso era scarso; appena giungeva al numero di 600 votanti senza il quale, per legge, nessuna deliberazione era valida. I vecchi erano pallidi non di dolore ma di paura, i giovani ostentavano un portamento altero e contento; ma molti sapevano dentro a sé di esser costretti a darsi la zappa sui piedi, e quell'allegria non era sincera. Si lesse il decreto che dava facoltà ai negoziatori di mutare a lor grado la Repubblica, e che prometteva a Bonaparte la liberazione di tutti gli arrestati politici dal primo ingresso delle armate francesi in Italia. In questa ultima clausola io conobbi l'influenza del dottor Lucilio, pensai ad Amilcare, e fui forse il solo che ne gioisse non indecorosamente. Del resto era un capo d'oca a non intendere la vigliaccheria di quella promessa, e a trovarla giusta per un sentimento affatto privato. Il decreto fu approvato con soli sette voti contrari; altri quattordici ne furono di non sinceri, cioè di quelli che né accoglievano né rigettavano la proposta ma ne negavano la presente opportunità. E appena esso fu noto in piazza, subito i favoreggiatori dei Francesi, che vi tulmultuavano, corsero con gran impeto alle carceri. Coi buoni uscirono i galeotti, coi fanatici i tristi, e la favola dei sedicimila congiurati ottenne maggior fede di prima. I patrizi credettero aver dato prova di sommo coraggio col non deliberare sulla consegna richiesta dell'Ammiraglio del Lido e dei tre Inquisitori. Ma ecco che il general Bonaparte torna da capo col dichiarare al Donà e al Giustinian che non li accoglierà come inviati del Maggior Consiglio se prima quei quattro magistrati non siano imprigionati e puniti. L'umilissimo Maggior Consiglio si inchinò un'altra volta, non più con cinquecento ma con settecento voti: e il Capitano del Porto e i tre Inquisitori furono carcerati quel giorno stesso per lo strano delitto di aver ubbidito meno infedelmente degli altri alle leggi della patria. Francesco Battaja, il traditore, fu tra gli Avogadori di Comune incaricato dell'esecuzione di quel sacrilego decreto. Ma questo non bastava né all'impazienza dei novatori né alla spaventata condiscendenza dei nobili. La solita Conferenza ammannì un altro decreto nel quale veniva ordinato al Condulmer di non resistere colla forza alle operazioni militari dei Francesi, ma soltanto di persuaderli a non entrare nella Serenissima Dominante, finché si avesse il tempo di allontanar gli Schiavoni a scanso di spiacevoli conseguenze... Volevano tosarsi perfino le unghie per non dare in isbaglio qualche graffiatura a chi si apprestava a soffocarli. Se questa non fu mansuetudine meravigliosa anzi unica al mondo, io sfido i pecori ad inventarne una migliore. Mio padre era proprio tornato di Turchia a tempo, per far me poverello partecipe senza saperlo di tali codarde castronerie. E d'altra parte cosa valeva il sapere? Il dottor Lucilio fu invischiato peggio di me in quella brutta pece. Guai anche ai sapienti cui non corrisponde la virtù dei contemporanei: sorretti dalla confidenza nelle proprie dottrine essi salgono facilmente ad abitar le nuvole: e se non disperano prima per discrezione di criterio, disperano poi per necessità d'esperienza. Amilcare intanto era uscito di prigione e secolui avevamo rappiccato l'antica amicizia; un altro invasato anche lui, che vedeva nei Francesi i liberatori del mondo, e fin lì forse il ragionamento si reggeva; ma zoppicava poi, quando li credeva i liberatori di Venezia. Ciò non toglie che Amilcare non cooperasse a infervorare e persuadere maggiormente anche me: poiché il suo ardore non era chiuso come quello di Lucilio ma tendeva a dilatarsi con tutta l'espansione della gioventù. Insieme ad Amilcare indovinate mo chi fu liberato dagli artigli dell'Inquisizione? — Il signor di Venchieredo. Non ve l'aspettavate forse, perché il suo delitto non era certo di favoreggiare i Francesi. Ma io credo che o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che la grazia fosse concessa anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse prossima a finire. Il fatto sta che Lucilio mi diede sue novelle, aggiungendo misteriosamente che dalla Rocca d'Anfo egli era corso a Milano dove era allora la stanza del general Bonaparte, e dove si agitavano diplomaticamente i destini della Repubblica veneta. Una sera (già si correva precipitosamente all'abisso del dodici maggio) mio padre mi chiamò nella sua camera, dicendo che aveva grandi cose a comunicarmi, e che stessi ben attento e ponderassi tutto perché dalla mia destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della famiglia. — Domani — egli mi disse — si compirà la rivoluzione a Venezia. Io diedi un strabalzo di sorpresa, perché colla duttile arrendevolezza del Maggior Consiglio e i negoziati pendenti ancora a Milano non mi entrava quel bisogno di rivoluzione. — Sì — egli riprese — non fartene le meraviglie: poiché stasera sarai chiarito di tutto. Intanto io voglio metterti sulla buona via perché non ti perda poi nel momento decisivo. Sai tu, figliuol mio, cosa voglia dire una repubblica democratica? — Oh certo! — io sclamai coll'ingenuo entusiasmo d'un giovane di ventiquattr'anni. — Essa è la concordia della giustizia ideale colla vita pratica, è il regno non di questo o di quell'uomo ma del pensiero libero e collettivo di tutta la società. Chi pensa rettamente, ha diritto di governare e governerà bene. Ecco il suo motto. — Va bene, va bene, Carlino — riprese biascicando mio padre. — Questo sarà un bel concetto scientifico e mettilo da una banda perché il signor Giulio se ne faccia bello in qualche canzonetta. Ma un governo di tutti, cercato da pochi, imposto da pochissimi, e creato da un generale còrso; un governo libero di gente che non vuole e non può esser libera, sai tu qual piega sia disposto a prendere? Io mi guardai intorno confuso, perché in tali materie usava far i conti senza pensare agli uomini; e sommava e moltiplicava, e divideva come se tutto fosse oro, ma alla fine invece di trovarmi innanzi una somma netta e liquida di zecchini, poteva darsi benissimo che rimanessi con un ciarpame di soldatacci e di quattrinelli. Io, come dissi, non ci pensava, e perciò mi confusi affatto alla domanda di mio padre. — Ascolta — continuò egli col fare paziente del maestro che riprende l'insegnamento da bel principio. — Queste cose, che tu abbellisci di sogni e di illusioni, io le ho prevedute da anni, tali quali devono essere. Non capisco per verità né pretendo capire a fondo le tue immaginazioni, ma ci veggo per entro una buona dose di gioventù e d'inesperienza. Se fosti stato per qualche tempo alle prese con un bascià o col Gran Visir, credo che sputeresti meno filosofia, ma ci vedresti meglio e più da lontano. La grossaccia furberia dei Mamelucchi ci insegna a conoscere quella sottilissima dei cristiani. Credilo a me che l'ho provato. E non l'ho provato per nulla, giacché lavorava al mio buon fine, ed ora sarei in ballo io, se tornando

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