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Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 219sua stessa forza, come l'aquila sopra le nubi!... Infatti io era prostrato dalla sublimità di quella virtù che non avrei quasi osato sperare da anima umana. La Pisana poi, chi l'avrebbe creduta capace di quella pudica riservatezza, di quell'abnegazione umile nascosta, di quella santa impostura portata tant'oltre da lasciarsi quasi credere vera per non turbare la pace d'una famiglia da lei stessa si può dire composta?... Quanto falsi erano stati i miei giudizi intorno a quell'animo vacillante forse nei piccoli sentimenti, ma costante e indomabile nella grandezza quanto non lo fu alcun altro giammai!... Il suo fare più sostenuto all'annunzio del prossimo arrivo dell'Aquilina, que' suoi impeti di tenerezza subitamente frenati e la sua melanconia successiva, il suo volontario allontanamento da me, tutto contribuì a farmi capace della verità di quanto affermava Lucilio. Due anni interi aveva errato col mio giudizio; ma il mio medesimo errore era una prova dell'estrema sua delicatezza, e dell'assidua perseveranza colla quale avea mantenuto i suoi eroici proponimenti. — Dottore — risposi con voce tanto commossa che stentava ad articolar parola — disponete di me. Dite parlate insegnatemi un mezzo da salvarla. La vita di me e di tutti i miei, sì, tutto basterà appena a ricomprare tanti sacrifizi! Il meno ch'io le possa offrire è tutta intera la vita che mi rimane! — Pensiamoci, Carlo; son qui con voi apposta. E la salute di tutti i miei illustri clienti, credetelo, mi dà minor pensiero che un rammarico, un sospiro, un lamento solo della Pisana. Ella avrebbe il diritto di vivere tutti i suoi giorni pieni felici; e di morire per un eccesso di gioia. — Non parlate di morire! per carità non parlatene! — E cosa sapete voi che per certe anime eccessive e privilegiate la morte non sia una ricompensa?... Tuttavia ragioniamo come si ragiona per tutti. La sola maniera ch'io vegga di redimerla è collocarla ancora in qualche necessità di pazienza e di sacrifizio. Rendetela a suo marito: vicino al suo letto ella riavrà la forza di vivere: fors'anco l'aria nativa aiuterà questo rifiorimento della salute. — Rimandarla a Venezia voi dite?... Ma come, Lucilio, come?... Deggio io allontanarla, cacciarla da me, ora che sembro non aver più bisogno della sua assistenza? — Tutt'altro: dovete anzi raccompagnarla voi. E ch'ella continui ad avere nella vostra famiglia quell'intimità di affetto senza la quale non possono durare temperamenti simili al suo. Quando la forza smoderata della sua anima troverà altre azioni in cui sfogarsi, altri miracoli da tentare, altri sacrifizi da compiere, il passato perderà per lei ogni tormento, i desiderii impossibili s'adagieranno in una dolce e contenta melanconia. Riavrete un'amica, e una sublime amica!... — Oh volesse il cielo, Lucilio! Domani partiremo per Venezia! — Vi dimenticate due cose. La prima che ho promesso di rendervi la vista; la seconda che non avete facoltà di tornare a Venezia senza pericolo. Ma mentre m'adoprerò di procurarvi questa, le cateratte si matureranno e vi prometto che vedrete il pallido sole del Natale. — E non si potrebbe affrettarsi?... Non per gli occhi miei, Lucilio, ma per lei, per lei solamente!... Credo che anche adesso potreste tentar l'operazione... — Bravissimo Carlo! Vorreste che vi accecassi affatto per pagar forse cogli occhi vostri un gran debito di riconoscenza?... Umiliatevi, amico mio, due occhi non bastano; è meglio serbarli, e pagheranno poi colle occhiate molto e molto di più. Voi avete un credito colla Turchia, il quale appoggiato a sole rimostranze private non vi frutterà mai nulla. Volete che io cerchi di venderlo a qualche inglese?... L'Inghilterra ha qualche diritto ora alla benevolenza della Porta Ottomana, poiché sono vascelli di Londra di Liverpool e di Corfù che la aiutano nella santissima opera di martirizzare la povera Grecia. L'Inghilterra è madre amorosa: sopratutto nel far pagare ai suoi figli quanto è loro dovuto, essa vale un tesoro; pel credito di mille sterline non avrà rimorso di appiccare il fuoco ai quattro cantoni del mondo. Fate a modo mio: lasciate ch'io dipani un poco questa matassa!... — Ma a persuadermi di ciò non faceano d'uopo tante parole. Domani vi passerò le carte che sono ora nelle mani di mio cognato. Certo non poteva trovare miglior procuratore. — A domani dunque e siamo intesi. Io mi darò attorno a questa faccenda. Di qui a un paio di settimane l'operazione; poi il consueto riposo di quaranta giorni e il viaggio a Venezia. Non mi ci vorrà tanto per procurarvi il passaporto. — Sì, ma intanto?... — Intanto tenete colla Pisana un contegno umile ed affettuoso, e non riscaldatevi tanto nel lodar vostra moglie, come facevate ora. Li merita questi elogi ma non sono opportuni. L'altra, ve lo dico io, ne soffre acerbamente!... — Grazie, grazie, dottore, io non ebbi mai amico migliore di voi. — Ve ne ricordate eh?... La è un'amicizia di data vecchia. Ho cominciato col risparmiarvi i rimbrotti e le busse, ordinandovi un purgante. A questa memoria io scoppiai in un pianto dirotto. Anche ai ciechi è concesso il ristoro delle lagrime. E furono sì copiose sì dolci che non sentii in appresso la metà de' miei dolori. — Lucilio se n'andò stringendomi affettuosamente la mano; e l'Aquilina mi venne accanto dopo alcuni momenti dicendomi che aveva ad intrattenersi meco di cose di grandissimo rilievo. Per quanto fossi mal disposto, cercai di adattarmi a quanto ella voleva, e risposi che parlasse pure, e che io starei molto volentieri ad ascoltarla. Si trattava dei nostri figli, massime di Luciano al quale quella mezza parola di un'andata in Grecia avea racceso nel cuore un tale entusiasmo che non pareva possibile calmarlo. Ella non si era opposta in sua presenza perché né voleva mostrarsi d'un parere contrario al mio, né rintuzzare palesemente quella fiera gagliardia del giovine, ma in segreto poi mi confessava che le sembrava un consiglio precipitato e Luciano troppo tenerello ancora per esporsi senza rischio ad una vita avventurosa. Meglio era dunque ristare per poco finché fosse più maturo, ed aspettare dal tempo ispirazioni più sincere. Queste considerazioni mi parvero giustissime; le approvai dunque pienamente lodandola della sua magnanimità e prudenza; e anche a me infatti non andavano mai a sangue le deliberazioni avventate per mera fanciullaggine, che conducono sovente ad una precoce sfiducia in noi e negli altri. Così fra noi restammo d'accordo; ma nell'altra stanza intanto Luciano e Donato non parlavano d'altro che d'Atene, di Leonida, dello zio Spiro e dei cugini: non vedevano l'ora di schierarsi in campo anch'essi e di menar le mani contro quei Turchi manigoldi. Soltanto Donato si commiserava talvolta di dover lasciare sua madre, mentre i cugini loro l'avevano in Grecia testimone delle loro prodezze. — Nostra madre ci starà sempre nel pensiero per animarci a imprese grandi e generose — rispondeva Luciano. — Sai com'erano fatte le madri spartane?... Esse godevano di procrear figli per poterli offrire alla patria; e porgendo loro lo scudo dicevano: “O con questo tornate, o sopra questo!”. Il che significava: o vincitori o morti; perché sullo scudo si adagiavano i corpi dei caduti per la patria. Così scaldavano a vicenda i due giovinetti; e ognuno sognava o l'eroica gloria di Botzari o la morte sublime di Tzavellas. S'avvicinava il giorno nel quale Lucilio avrebbe adoperato i mezzi più squisiti dell'arte per risuscitarmi alla luce. Egli non mi parlava della Pisana, e questa mi sfuggiva sempre per quanto cercassi ammaliarla colle più tenere carezze. Perfino l'Aquilina ne era gelosa; ma pensando a quanto essa aveva operato per me, non aveva coraggio di lamentarsene. Il silenzio di Lucilio non mi pronosticava nulla di bene, e le rare parole di conforto ch'egli mi volgeva, io le attribuiva più che a sincerità a premura di tenermi calmo pel giorno della gran prova. 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