Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 84

Testo di pubblico dominio

chi voleva che la Contessa e la Clara tornassero tosto, chi proponeva un'andata di tutti a Venezia per resistere alle audacie di lui. Ma non ne fu nulla. La Contessa scrisse che non aveva paura, e che del resto se avessero voluto cambiar paese, Lucilio colla sua professione di medico potea farle andare in capo al mondo. Si limitarono dunque a pregare il Frumier che scrivesse a qualche suo collega del Consiglio dei Dieci acciocché il dottorino fosse tenuto d'occhio; al che si rispose che lo osservavano già notte e giorno, ma che non bisognava far chiassi perché egli aveva voce di esser protetto da un segretario della Legazione francese, da un certo Jacob, che era a que' giorni il vero ambasciatore, fidandosi principalmente in lui i caporioni della rivoluzione da Parigi. Il Conte udendo cotali cosacce faceva occhi da spiritato; ma il Frumier lo confortava a darsi animo e a cercar invece di accontentare sua moglie la quale sempre più si lamentava della sua parsimonia nel mandar denari. Il pover'uomo sospirava pensando che per la economia aveano relegato lui a Fratta e che ciò nonostante consumavano più denari che non ne sembrassero bisognevoli ad uno splendido mantenimento di tutta la famiglia. Sospirava, dico, ma rammucchiava nello scrigno semivuoto quei grami ducati e ne faceva certi rotoletti che cadevano cogli altri nell'abisso di Venezia. Il fattore lo ammoniva che andando di quel trotto le entrate di Fratta sarebbero in breve ipotecate per cinquant'anni avvenire. Ma rispondeva il padrone che non c'era rimedio, e con quella filosofia tiravano innanzi. Più felice almeno, Monsignore non si avvedeva di nulla, e seguitava a mutare in polpe i capponcelli e le anitre delle onoranze. Quanto a me, io avea finito i miei studi di umanità e di filosofia, un po' alla zingaresca è vero, ma li aveva finiti. E nel sommario esame che sostenni mi trovarono per lo meno tanto asino quanto coloro che li avevano percorsi regolarmente. S'avvicinava il momento che m'avrebbero dovuto mandare a Padova, ma le finanze del Conte non gli consentivano questa munificenza, e giustizia vuole ch'io dia lode a cui si appartiene di una buona opera. Il padre Pendola non era uomo da mettersi a poltrire in un posto di maestro di casa sull'età dei cinquant'anni, quand'appunto l'ambizione si ristringe per diventar più alta ed ostinata. Cappellano e consigliere favorito di casa Frumier aveva egli potuto accaparrarsi la stima dei molti preti e monsignori che la frequentavano: non gli mancavano né le sante massime né i pronti ripieghi di coscienza per innamorare ambidue i partiti; e tanto bene vi riescì, e tanto seppe destramente metter in mostra questo suo trionfo, che, venuta la cosa agli orecchi del Vescovo, si diceva che questi ad ogni imbroglio che turbava la diocesi usasse esclamare: — Oh fossi io il padre Pendola! Oh avessi in Curia il padre Pendola! — L'umiltà di questo diede maggior rilievo alle esclamazioni episcopali; e venuto a morte il segretario d'allora, vi furono preti d'ambidue i partiti clausetani e bassavoli che supplicarono presso il Frumier perché egli inducesse il padre ad accettare quel posto. Con ciò ognuno sperava d'insediare più saldamente che mai nell'episcopio il proprio partito. Il Frumier ne parlò al padre, questi fece il ritroso, rifiutò la corona come Cesare, ma si lasciò incoronare come Augusto; ed eccolo diventar segretario del Vescovo, e colla sua destrezza e co' suoi maneggi padrone a dir poco d'una diocesi. Si aspettavano grandi cose; ma tutti pel momento furono gabbati; tutti peraltro erano contentissimi perché speravano nel futuro e nelle grandi promesse del padre. Egli era da poco installato nella sua nuova dignità, quando il piovano di Teglio me gli presentò nella sua canonica, ove il Vescovo faceva la visita. Gli piacqui, bisogna dire, e mi promise d'interessar a mio favore il senatore Frumier. Questi infatti godeva il diritto di nomina ad un posto in un collegio gratuito per gli studenti poveri presso l'Università di Padova: ed essendo quel posto vacante, lo destinò a me pel venturo novembre. Si lamentò anzi col cognato perché non gli parlasse prima del mio caso, che vi avrebbe provveduto con tutto il cuore. Ma il beneficio veniva a tempo ed io ne ringraziai fervidamente tanto il mio mecenate che l'utile intercessore. Per allora non ci vedeva più in là, e non avea imparato a far saltar la moneta sulla tavola per provare se era buona. Del resto io non era malcontento di cambiar paese. La Pisana, dopoché Lucilio era partito e il Venchieredo aveva abbandonato la loro casa, faceva l'occhiolino a Giulio Del Ponte, e sul serio stavolta, perché l'aveva i suoi quindici anni, e ne mostrava e ne sentiva forse diciotto. Fu appunto in quel torno che per isvagarmi da tanto crepacuore io mi misi a gozzovigliare e a trescare coi buli del paese, e in breve divenni il vagheggino di tutte le ragazze, contadine od artigiane. Quando tornava da qualche fiera o sagra sul mio cavalluccio stornello preso a prestito da Marchetto, suonando il mio piffero alla montanara, ne aveva intorno una dozzina che ballavano la furlana per tutta la via. Ed ora mi pare che avrò somigliato una caricatura del sole che nasce, dipinto da Guido Reni, col suo corteggio delle ore danzanti. Però deggio dire che quella vita mi pesava; e fu anche interrotta da un luttuoso accidente, dalla morte di Martino che spirò nelle mie braccia dopo brevissimo male di apoplessia. Io, credo, fui il solo che piansi sulla sua fossa, perché per allora alla Contessa vecchia, già quasi centenaria e rimbambita per la mancanza della Clara, si giudicò opportuno di tacere quella perdita. La Pisana, affidata alla guida poco sicura di quella volpe scodata della signora Veronica, imbizzarriva sempre più, e peggiorava nell'ozio la cattiva piega della sua indole. Il giorno prima che partissi per Padova, io la vidi tornare dal passeggio rossa, scalmanata. — Cos'hai Pisana? — le chiesi col cuore gonfio di lacrime di compassione, e piucché altro, lo confesso, di quell'amore che era più forte e più grande di me tutto. — Quel cane di Giulio non è venuto! — mi rispose ella furibonda. E poi scoppiando in singhiozzi, mi si gettò colle braccia al collo gridando: — Tu sì che mi ami, tu sì che mi vuoi bene tu! — E la mi baciava ed io la baciava frenetico. Quattro giorni dopo io assisteva alla prima lezione di giurisprudenza, ma non ne capii verbo perché la memoria di quei baci mi frullava diabolicamente nel capo. La scolaresca era in gran tumulto in grandi discorsi per le novelle di Francia che giungevano sempre più guerriere e contrarie ai vecchi governi. Io per me rosicchiava melanconicamente lo scarso pane del collegio e le abbondantissime chiose del Digesto sempre pensando alla Pisana e alle gioie, ora dolci ora amare, sempre dilette alla memoria, de' nostri anni infantili. E così si chiuse per me l'anno di grazia 1792. Soltanto mi ricordo che giunta, al fine di gennaio del venturo anno, la nuova della decapitazione di re Luigi XVI, recitai un Requiem in suffragio dell'anima sua. Testimonio questo delle mie opinioni moderate d'allora. CAPITOLO OTTAVO Nel quale si discorre delle prime rivoluzioni italiane, dei costumi della scolaresca padovana, del mio ritorno a Fratta, e della cresciuta gelosia per Giulio Del Ponte. Come i morti possono consolar i vivi, ed i furbi convertire gli innocenti. Il padre Pendola affida la mia innocenza all'avvocato Ormenta di Padova. Ma non è oro tutto quello che luce. Francia aveva decapitato un re e abolito la monarchia: il muggito interno del vulcano annunziava prossima un'eruzione: tutti i vecchi governi si guardavano spaventati, e avventavano a precipizio i loro eserciti per sopire l'incendio nel suo nascere: non combattevano più a vendetta del sangue reale ma a propria salute. Respinti dal furore invincibile delle legioni repubblicane, già Nizza e Savoia, le due porte occidentali d'Italia, sventolavano il vessillo tricolore;

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Argomenti: cuore gonfio,    sangue reale,    splendido mantenimento,    scrigno semivuoto,    sommario esame

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