Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 252

Testo di pubblico dominio

cortile dove s'affaccendano gli schiavi e nitriscono i puledri quando sulla sera li raccolgono nelle stalle. La città si stende nella pianura sopposta, e giunge anch'essa fino al fiume che dietro il nostro giardino s'incurva rapidamente: un po' a sinistra sono le caserme dove io vado due volte al giorno a comandar gli esercizi e a fare l'appello della notte. Costoro sono ubbidientissimi soldati a Rio Janeiro, ma lungo la strada perdono mano a mano le loro virtù, si tramutano in scorridori, in briganti, e qui poi di poco dissomigliano dagli Indiani che ci molestano di continui assalti. Sono brevi guerre, ma sanguinose e piene di rischi. Si tratta di superare, col vitto di parecchie giornate in ispalla, rupi quasi inaccessibili, di passare precipizi orribili sopra alberi tagliati al momento e buttati a cavalcioni da una sponda all'altra, di cercare i nemici come le fiere in antri profondi e tenebrosi, in boscaglie cupe paludose piene di agguati e di serpenti. Si ode un fischio rasente l'orecchio, e sono frecce scagliate da mani invisibili; non sono né feriti né prigionieri; le armi sono avvelenate e se fanno sangue uccidono; chi cade nelle mani del nemico è scannato senza remissione; dicono che qualche buongustaio si diverta anche a mangiarli. Del resto fuori di questi passeggeri trattenimenti la nostra vita è quella dei ricchi villeggianti sulle rive della Brenta; più questo cielo, e questa magica natura che tramuta la terra in paradiso. Il dottor Ciampoli, ispettore delle miniere, rimase assente due o tre giornate nei suoi giri di sorveglianza: egli ha avviato un commercio di diamanti con Bahja, che frutterà assai in poco tempo. Di solito gli serve di scorta un sergente con dieci uomini, ma qualche volta l'accompagno io. Scegliamo allora le gite più pittoresche e poetiche, e l'ultima volta che fummo in una miniera nuovamente scoperta, si vollero condurre anche la Gemma e il Fabietto. Il chiasso che si fece in quel piccolo viaggio non è a descriversi; mi parve esser tornato alle asinate di Recoaro e di Abano. Quando si aveva a varcare un torrente la Gemma tremava e rideva dalla paura ma pur si fidava di me; e metteva i suoi piedini sul passatoio l'un dopo l'altro, così daccosto, così leggieri, che era cosa da baciarla. Davvero non potrei volerle maggior bene se fosse mia sorella. Più spesso quando suo padre è assente, ed io rimango per badare alla soldatesca che ha bisogno di esser curata perché non diventi il flagello del territorio, noi passiamo insieme le più simpatiche giornate che si possano immaginare. Studiamo insieme un tantino di storia, ed io le insegno quel poco che so di Atene e di Roma; ella m'insegna di ricambio a strimpellar qualche arietta sul cembalo, e così in due mesi si suona già a quattro mani, che in Europa sarebbe un martirio l'udirci; ma qui ne sono incantati, e due ragazze mulatte, che sono le sue cameriere, non tralasciano mai di ballare alla nostra musica una indiavolata sarabanda. Davvero che codeste signore schiave hanno bel tempo, e se qui stessero tutti i danni della servitù, sarebbe da sottoscriversi subito; ma ho già veduto le fattorie le piantagioni di zucchero, e non ho coraggio di parlare. Anche la schiavitù ha la sua aristocrazia spensierata felice e dura ma odiata dagli inferiori più forse degli stessi padroni. Fra me e la Gemma si fa anche un po' di scuola al Fabietto; egli sgrammatica già nel francese con inimitabile audacia, e tutti insieme poi prendiamo lezione di portoghese da un vecchio prete che è cappellano, vescovo, e direi quasi papa del paese. V'ha, sì nella provincia un vescovo, ma è miracolo se una volta in sua vita si cimenta fin quassù. Sono fatiche da bestie, e i nostri prelati suderebbero a figurarsele: non si trovano qui né parrochi ospitali, né canoniche spaziose e parate a festa, né mense ben fornite ad ogni due miglia. Bisogna serenare dieci notti prima di trovare una capanna dove un povero e coraggioso missionario arrischia la vita per insegnare ai selvaggi quell'abbicì della civiltà che è il cristianesimo. Il maresciallo Giorgi, l'invincibile duca di Rio–Vedras, ha fatto assai colle carabine; ma più faranno, credo, questi preti ignorati pazienti. Qui Voltaire ha ancora torto. Insomma se non fosse la lontananza, l'incertezza delle corrispondenze, e quella smania di novità che accresce sempre mano a mano che si veggono cose più nuove e stupende, torrei volentieri di finir qui la mia vita. Ma Venezia?... Oh non pensiamoci!... Papà e mamma, vi rivedrò io mai più?... In cielo, è certo. RIO FERREIRES, giugno 1851 Quanti mesi che non aggiungo nulla a queste poche note del mio esiglio; ma converrebbe appunto o scrivere un volume al mese o restarsi. Qui tutto nuovo strano inopinato; ma dopo le lontane escursioni fra le tribù selvagge, si torna sempre alla pace e alla giocondità della famiglia. Il dottore è contentissimo de' suoi negozi. — Ancora un anno — mi dice — e rivedremo Genova!... Ma voi perché non prendete parte al nostro commercio?... perché non vi arricchite? — Egli crede che la mia famiglia sia povera, né suppone giammai che la loro compagnia fosse grandissimo motivo di trapiantarmi nel Mato–Grosso; perciò rispondo che non ho grandi bisogni, che son giovine, ed è mia sola ambizione lo avvezzarmi alle rischiose fazioni militari e tornar in Italia scarso di denari ma ricco d'esperienza. La Gemma sorride di queste mie parole, e il Fabietto strepita ch'egli pure vuol esser soldato e comandare l'esercizio. Il diavolino si fa robusto ed animoso; cavalca vicino a me le mezze giornate, e se usciamo a caccia mi vince nell'aggiustatezza del tiro. Ma io ho compassione di uccidere uccelli di sì vaghe piume, che ci guardano passare con tutta confidenza appollaiati sul loro ramo. La mano del fanciullo è meno pietosa e non trema come la mia; egli è intrepido, forte, quasi brasiliano; non serba di Venezia che il colore degli occhi e i bei capelli castano dorati; parla il portoghese come lo avesse imparato a balia, e fa vergogna a noi che zoppichiamo ancora nella pronuncia. Ieri ho ricevuto lettera da casa; ma il papà mi dice di averne scritte otto o dieci, e questa è la prima che mi giunge. Chi sa qual sorte avranno corso le mie! Anche l'ingegner Martelli mi scrive che è giunto suo fratello e che andranno insieme a Buenos Aires, chiamati da quel governo per affari coloniali e militari. Colà gli Italiani hanno buon nome; il general Garibaldi ha lasciato gran desiderio di sé, e si diceva che ne sperassero il ritorno. Se fosse prima di tornar in Europa, vorrei passarvi per salutarlo, e con lui anche i Martelli che mi son cari come fossero del mio sangue. O patria patria, come allarghi i tuoi legami per tutto il mondo! Due nati sotto il tuo cielo si riconoscono senza palesar il proprio nome sulla terra straniera, e una forza irresistibile li spinge l'uno all'altro fra le braccia!... VILLABELLA, aprile 1852 Che orribili giorni! Son due mesi che ci penso e non mi sono ancora indotto a scriver sillaba. Oh mi sarei strappato l'anima coi denti se avessi saputo l'anno scorso quali cose tremende e funeste doveva accogliere questa pagina! — Ella è là che dorme; la sua mente si è rischiarata, la salute si rinfranca ogni giorno meglio, tornando le rose sul suo bel volto, e gli occhi risplendono fra le lagrime. Qual doloroso spettacolo il freddo letargo e i sùbiti delirii dei giorni addietro! Ma adesso la tempesta ricade in calma; vince la buona natura, e sento di qui il suo respiro tranquillo ed uguale come d'un bambino addormentato. Scriviamo prima che le scene spaventose di quella tragedia non si confondano affatto nella memoria che raccapriccia tuttora. Sul principio d'agosto dell'anno scorso erasi notata qualche inquietudine nelle tribù indiane che scendono a svernare sulle rive del fiume, anzi io avea fatto chiedere di soccorso il governatore di Villabella, ma per la lontananza non ci avea lusinga di averne prima della primavera

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Argomenti: vecchio prete,    forza irresistibile,    vado due,    piccolo viaggio,    coraggioso missionario

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