Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 225

Testo di pubblico dominio

un ultimo sguardo, ne spremono quasi i più alti e generosi sentimenti per farsene viatico al gran viaggio verso Dio. Molte volte nominò l'Italia, molte volte stringendomi la mano mormorava parole di coraggio e di fede. — I tuoi figli; i tuoi figli! — mi diceva. — Carlo, li vedi, essi sono più felici di noi!... Ma nel mondo, vedi, nel mondo! Fuori del mondo noi saremo beati al pari, di aver preparato la loro felicità! — Un altro momento si perdette in vaghi balbettamenti dai quali credetti rilevare che parlasse di Napoli, e dei giorni gloriosi e terribili vissuti colà ventiquattr'anni prima. Dopo evocate quelle lontane memorie mise le mani in croce e con piglio supplichevole soggiunse: — Perdono, perdono!... — Oh il perdono, anima mia, a chi e perché lo chiedevi? forse a me che avrei dato tutto il mio sangue per meritare il tuo? Forse a quel Dio che da tanto tempo era spettatore de' tuoi coraggiosi sacrifizi, e ammirava in quel momento la sublimità virtuosa e serena a cui può sollevarsi una sua creatura? Oh godi ora, godi, anima benedetta, di quest'ultima testimonianza che io, ancora vivo dopo altri trent'anni di pazienza e di dolori, rendo sul limitare del sepolcro alle tue eroiche virtù!... Godi di sapere che se qualche splendore di coraggio ha illustrato il resto della mia vita, se di qualche utile impresa si onorarono i miei figli, e si onoreranno mai i figliuoli loro, il merito si appartiene a te sola! A te che mi pregasti di rimanere e di perpetuare e rinnovare in me e negli altri l'esempio della tua vita magnanima!... Sorridi ancora alla mia mente annebbiata e decrepita, o anima pura, da quel cielo alto e profondo dove per l'intima forza della sua sublimità si rifugiò la tua voce, e additami con un raggio di speranza il sentiero per cui possa raggiungerti!... Se nel pensiero abbuiato dalla vecchiaia e curvo sul sepolcro del mio figliuolo prediletto, dura ancora un poetico barlume delle eterne speranze, lo deggio a te sola. Per te sola ebbi famiglia, patria e altezza di cuore, e incorruttibilità di coscienza; per te sola conservo il fuoco eterno della fede; e lo unirò, dovechessia, al fuoco eterno dell'amor tuo. No, non sogna non bamboleggia un vecchio d'oltre ottant'anni; non resiste a tanti dolori per cadere in quel supremo dolore che sarebbe la confusione del bene e del male. V'ha una sfera sovrumana, un ordine eterno dove le colpe piombano nella materia e le virtù si sollevano a spirito. Io che ti vidi scrollare d'intorno queste spoglie frali e caduche, io che ti ricordo più bella più giovane più felice che mai all'istante supremo e pauroso della morte, io che ti amo ora più che non ti amassi mai, compagna nella vita nelle debolezze negli errori, io deggio credere per necessità a una sublime purificazione, a un misterioso travestimento degli esseri! Sì, per grazia tua, per amor tuo, o animo felice, mettendo il piede nella tomba rinnego superbamente quella filosofia timida e senza cuore che nega ciò che non vede. Piuttosto che abbassare coi sensi la ragione umana, mille volte meglio sublimarla coll'immaginazione e col sentimento. Grazie, o Pisana, di quest'ultimo conforto che mi piove dall'alto dei cieli. Tu sola potevi tanto sopra di me. Non credo, non ragiono, ma spero. Quand'ella fu tornata in sé l'Aquilina le domandò se voleva che si chiamasse un prete perché la religione assicurasse viemmeglio la meravigliosa serenità del suo spirito. — Oh sì! — rispose ella sorridendo mestamente. — A mia sorella dorrebbe assai di sapere ch'io fossi morta senza prete! — No, non parlar di morire! — soggiunse l'Aquilina, — i conforti della religione aiutano anche a vivere secondo la volontà del Signore. — Vivere o morire è lo stesso dinanzi a lui — riprese con voce calma e solenne la Pisana; poi rivolse a me una lunga occhiata di speranza. Io mi asciugai gli occhi furtivamente, e nel rivolgermi all'altro lato vidi mio cognato e i due ragazzi che contemplavano meravigliati e quasi invidiosi quella forte moribonda. Tutto spirava intorno a quel letto pace e grandezza; e io pure finii col credere che non si trattasse di altro che della separazione di pochi anni; non assisteva ad una morte disperata ma ad un mesto ed amichevole commiato. Venne Lucilio che tastò il polso e sorrise alla morente come volesse dirle: partirai fra breve ma in pace. Egli pure credeva. Venne da ultimo il prete col quale la Pisana s'intrattenne a lungo senza cinico disprezzo e senza affettata divozione. Contenta com'era di sé non le fu difficile persuadersi d'essere in pace con Dio; e i primi funerali che si celebrano con pompa sì lugubre e spaventosa al letto degli agonizzanti, non alterarono per nulla il suo aspetto sereno. Tornò poi ad intrattenersi con noi, a ringraziare Lucilio delle sue cure, l'Aquilina e Bruto della loro amicizia, a benedire i miei figli pregandoli di ubbidire e di imitare i loro genitori. Mi prese poi per mano, e non volle più che mi scostassi dal suo letto nemmeno per prendere una tazza di cordiale che stava sopra l'armadio e che le fu avvicinata alle labbra dall'Aquilina. Essa la ringraziò d'un sorriso, indi si rivolse a me soggiungendomi all'orecchio: — Amala, sai, amala, Carlo! Te l'ho data io! — Non ebbi fiato di rispondere, ma accennai col capo di sì; né ho mai dimenticato quella promessa, e l'Aquilina stessa avrebbe potuto attestarlo, per quanto alcune disparità d'opinione abbiano inasprito in appresso i nostri temperamenti. Di momento in momento il respiro della Pisana diveniva più raro ed affannoso; mi stringeva sempre più forte la mano, sorridendo ad ora ad ora a ciascuno di noi; ma quando toccava a me era un'occhiata più lunga ed intensa. E se ne stoglieva per guardar di nuovo l'Aquilina; quasi le chiedesse perdono di quegli ultimi contrassegni d'amore. Proferiva di tanto in tanto qualche parola, ma la voce le veniva mancando; io mi sentiva mancare insieme a lei, e subito collo sguardo ella mi inanimava a ricordarmi di quanto le aveva promesso. — Eccomi! — diss'ella ad un tratto con voce più forte del solito. E volle sollevarsi dal guanciale, ma ricadde più stanca che abbattuta, e sorridendo di quello sforzo impotente. — Eccomi! — mormorò una seconda volta; poi volgendosi a me soggiunse: — Ricordati: ti aspetto!... Io sentii un brivido passarmi per mezzo il cuore, era l'anima sua che nel partire risalutava la mia. Mi stringeva ancora per mano, le sue labbra sorridevano, gli occhi guardavano ancora; ma la Pisana era già salita ad avverare le sue eterne speranze. Lo credereste? Nessuno si mosse dal suo posto; tutti restammo là immobili silenziosi a contemplare la serenità di quella morte; Lucilio mi raccontò poi di aver pianto esso pure ma quasi di consolazione; io non lo vidi allora come nulla vidi per tutto quel giorno. Non mi mossi, non piansi né parlai finché non tolsero dalla mia la mano della Pisana per adagiarla nella bara. Allora io stesso le composi intorno le vesti, io stesso la deposi nel suo ultimo letto, e all'ultimo bacio che le impressi sulle labbra mi parve che l'anima mia fosse fuggita insieme alla sua. Per molti giorni rimasi che non sapeva d'essere né morto né vivo: ma era sospensione di vita e non disperazione, per cui a poco a poco il pensiero si sciolse da quel letargo, e riebbi finalmente la coscienza di me e la memoria di quanto era stato, per riaver insieme la fortezza che mi abbisognava onde ubbidire agli ultimi desiderii della Pisana. D'allora in poi la mia indole assunse una gravità e una fermezza non mai avuta dapprima; e l'educazione ch'io diedi a' miei figliuoli s'inspirò tutta da quei magnanimi esempi di virtù e di costanza. Quando l'Aquilina mi rimproverava dolcemente di avventurarli così ad un destino compassionevole e tempestoso bastava ch'io le ricordassi la morte della Pisana perché ella si ritraesse dicendo che aveva ragione! Infatti non si deve guardare né a pericoli né a sacrifizi per meritare una tal morte.

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Argomenti: tanto tempo,    supremo dolore,    fuoco eterno,    piglio supplichevole,    utile impresa

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