Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 79

Testo di pubblico dominio

coricato; e poi tolse in mano gli opuscoli divoti del Bartoli che erano la sua consueta lettura prima di addormentarsi. Ma quello che aveva tanto sorpreso lui, non avrebbe sorpreso me per nulla. Io aveva seguito benissimo il Venchieredo nelle fasi del suo amore per la Clara; e sfiduciato alla fine di muoverla, lo aveva veduto nelle due ultime sere accorgersi della Pisana, accostarsi a questa, e pigliar tanto fuoco in un attimo, quanto non gli si era destato in cuore in due mesi di omaggi alla sorella maggiore. Quanto rammarico io avessi per questo, ognuno se lo può immaginare per poco che abbia capito l'indole del mio affetto per quell'ingrata. Ma ebbi campo in seguito di maravigliarmi, quando vidi la Pisana dopo gli ossequi del Venchieredo riprendere verso di me la sua maniera affettuosa e gentile, quale da un pezzo non la usava più che a sbalzi e quasi per sforzo di volontà. Donde proveniva questa nuova stranezza? Allora non poteva farmene ragione per nessun modo. Adesso mi par di capire che la burbanza di essa verso di me derivasse massimamente dal corruccio di vedersi trascurata come una bambina a dispetto della sua sfrenata bramosia di piacere. E non appena la piacque a qualcuno, tornò verso di me quale era sempre stata. Anzi migliore; perché nessuna cosa ci fa verso gli altri così buoni e condiscendenti, quanto l'ambizione soddisfatta. Confesso la verità che senza scrupoli e senza vergogna io presi la mia parte di quell'amorevolezza; e che a poco a poco il rammarico pel trionfo del Venchieredo mi si andò mutando nel cuore in un'amara specie di gioia. Mi parve di essere omai accertato che la Pisana non cercava negli altri né il merito né il piacere di essere amata, ma la novità e il contentamento della vanagloria. Perciò aveva lasciato da un canto Lucilio per appigliarsi al Venchieredo non appena la novità di questo aveva attirato gli sguardi più che il brioso gesteggiare di quello. Allora mi confortai colla certezza che nessuno né l'amava né l'avrebbe amata al pari di me; e ogniqualvolta le avesse ricercato l'animo un vero desiderio di amore, viveva sicuro che la mi sarebbe volata fra le braccia. Stupido cinismo di accontentarmi a questa lusinga, ma un gradino dopo l'altro io ero disceso a tanto; e finii coll'usarmi a quella vita di avvilimento, di servilità e di gelosie per modo che io era già uomo snervato e disilluso quando tutti mi credevano ancora un ragazzaccio rubesto e senza pensieri. Ma chi si dava cura di tener dietro alle passioncelle e ai romanzi della nostra adolescenza? — Ci giudicavano novelli affatto nella vita, che ne avevamo già fornita tutta l'orditura; e il compiere la trama è opera manuale alla quale siamo sospinti il più delle volte da forza ineluttabile e fatale. Il padre Pendola, dopo aver riconfermato il giovine cavaliero nei propositi della sera prima, riferì alla Contessa di Fratta l'ottimo risultato delle sue parole, tacendo, non è d'uopo nemmeno il dirlo, tuttociò che si riferiva alla Pisana. La signora volle quasi gettargli le braccia al collo, e lo ricompensò coll'assicurarlo che un suo semplice motto lasciato cadere intorno allo stabilimento di lui in casa Frumier, era stato accolto dal Senatore e dalla moglie con tal festosa premura da augurarsene un pronto adempimento dei loro voti. — Ora poi — disse la signora all'orecchio del reverendo che si era seduto a tavola vicino a lei a dispetto del solito cerimoniale di casa — ora poi lasci fare a me. Prima anche che la Clara sospetti di nulla, perché già le ragazze devono essere condottadagio entro queste faccende, io voglio che i miei eccellentissimi cognati sieno beati della sua compagnia. — Povero Raimondo! — sospirò il padre fra un boccone e l'altro. — Non lo compianga; — soggiunse ancor sottovoce la Contessa occhieggiando la figlia — una sposina come quella si quadra meglio del prete a un giovine di ventun anno. Infatti la settimana seguente tutta Portogruaro fu piena della gran novella. Il celebre, l'illustre, il dotto, il santo padre Pendola si ritirava in casa Frumier, stanco delle fatiche d'un lungo apostolato. Colà egli disegnava metter in pace la sua età non molto provetta ancora, ma pur afflitta pei sofferti disagi da molti incommodi della vecchiaia. Il vecchio Cappellano era stato trasferito, come desiderava, ad una cura vicino a Pordenone; e il Senatore e la nobildonna non potevano capire in sé per la gioia di possedere in sua vece un tanto luminare d'ecclesiastica perfezione. Raimondo aveva fatto le viste di adirarsi perché egli volesse uscire di sua casa prima che fosse entrata la sposa; ma il buon padre non ebbe bisogno di sfiatarsi per persuaderlo che ad un giovine vicino a fidanzarsi non si affaceva la tutela del precettore, e che per tutte le ragioni conveniva che la sua partenza da Venchieredo precedesse d'alcun poco la celebrazione degli sponsali. Raimondo lo vide partire senza molte lagrime, e continuò a frequentare il castello di Fratta, dove la confidente affabilità della Pisana lo compensava del gelato riserbo della Clara. Ma a costei non avevano ancor fatto cenno della fortuna che l'aspettava; ed egli attribuiva a ciò lo sforzo da lei durato per nascondergli la veemenza dell'amor suo. Del resto non se ne pigliava grande affanno; e se Clara falliva egli avrebbe goduto di ricattarsi colla sorella. Questi erano i filosofici sentimenti del signor di Venchieredo, ma la Contessa non la pensava a quel modo. Dopo aver lasciato i due giovani entrare, secondo lei, in una decente dimestichezza prese ella a preparare la Clara alla domanda del giovine; e parla e riparla s'inquietò alla fine un poco di vederla restar così fredda e imperterrita come non si trattasse di lei. Un bel giorno le spiattellò chiare e tonde le probabili intenzioni di Raimondo; e anche quest'ultimo colpo non diradò per nulla quella nube che da molti giorni si era raunata sulla fronte della donzella. Chinava le ciglia, sospirava, non diceva né sì né no. La mamma cominciò a credere che la fosse una stupida, come aveva sempre sospettato dentro di sé vedendola grave modesta e disforme in tutto da quello ch'ella era stata negli anni della giovinezza. Ma anche le stupide si scuotono a toccarle su quel tasto del marito; e la stupidità della Clara doveva essere veramente fuor di natura per non muoversi nemmeno a ciò. Si aperse allora colla vecchia suocera, che era sempre stata la confidente della fanciulla, e la pregò d'ingegnarsi a farle capire i disegni della famiglia intorno a lei. La vecchia inferma parlò ascoltò, e riferì alla nuora che la Clara non aveva intenzione di maritarsi, e che voleva star sempre con lei a vegliarla nelle sue malattie, a confortarla nella sua solitudine. — Eh! questi son grilli da pettegola! — sclamò la Contessa. — La vorrei vedere io che la seguitasse a fargli il muso duro a quel poverino, sicché egli trovasse un pretesto di cavarsela. Quando i genitori vogliono, il dovere delle ragazze fu sempre quello di obbedire, almeno in questa casa; e non si vedranno novità, no, non si vedranno. Quanto a lei poi, signora, io spero che non la fomenterà questa pazzia e che la vorrà aiutare me e il signor Conte a far vedere alla ragazza qual è il suo meglio. La vecchia accennò del capo che avrebbe fatto, e fu molto contenta che la nuora dopo quella gridata le uscisse fuori di camera. Ma non fu meno pronta per ciò a ritentare il cuor della Clara per persuaderla di accettare lo sposo che nobile e degno per ogni riguardo le si profferiva. La giovine si rinchiudeva nel suo silenzio, o rispondeva come prima che Dio non la chiamava al matrimonio, e che sarebbe stata felice di terminar la sua vita in quel castello accanto alla nonna. Si ebbe un bel che dire e un bel che fare: alla nonna, alla mamma, al papà, allo zio monsignore la Clara ripeté sempre la medesima solfa. Laonde la Contessa, per quanto ne arrabbiasse furiosamente dentro di sé, decise di soprastare senza nulla rispondere al

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Argomenti: santo padre,    tanto fuoco,    vero desiderio,    stupido cinismo,    opera manuale

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