Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 235

Testo di pubblico dominio

piagnucolare; ma sai che parlo come penso, e che se dico di morire in pace, in pace anche morrò. Soltanto ti confesso che mi duole all'anima di non vedere la fine; ma è un malanno che è toccato a dieci generazioni prima della mia e non giova lamentarsene. Le mie azioni, le mie idee, il mio spirito che con grande studio e con qualche fatica ho educato ad amare ed a volere il bene, soffocando anche le passioni che lo dominavano, tutto io credo seguiterà a servire quella meravigliosa provvidenza che va perfezionando l'ordine morale. Ti ricordi dei mondi concentrici di Goethe? Non saranno una verità; ma una profonda e filosofica allegoria. I nostri sospiri le nostre parole si ripercotono lontano lontano affievoliti sempre annullati mai, come quei cerchi che s'allargano intorno a quel punto del lago che fu percosso da un sasso. La vita nasce da contrazione, la morte da espansione; ma la vitalità universale assorbe in sé questi varii movimenti che sono per lei quasi funzioni di visceri diversi. Io ascoltava devotamente le parole di Lucilio, perché rarissimi sono coloro che sanno volgere a vero conforto le alte speculazioni della filosofia, e questo è privilegio concesso ai pochissimi che ebbero da natura o si procacciarono coll'educazione e colla forza della volontà la concordia intima dei sentimenti coi pensieri. Certo io non era in grado di batter l'ali dietro a quell'aquila, ma ne ammirava da terra il volo luminoso, consolandomi di vedere che altri saliva col ragionamento ov'io di sbalzo m'era stabilito colla coscienza. — Lucilio — gli risposi abbracciandolo nuovamente — parlando con voi mi sento proprio rinvigorire; questo è segno che le vostre sono idee vere e salutari. Ma per questo appunto non mi proibirete di sperare che la vostra compagnia ci durerà più lungo di quello che volete darci da intendere... — Ti prometto che ci faremo buona e allegra compagnia; nulla di più. Potrei anche dirti il tempo, ma non voglio farmi scornare come medico. Insomma son contento di me e tanto deve bastare. — Desiderereste riveder la Clara? — gli chiesi io. — O ve ne è passata affatto la voglia? — No, no! — egli mi rispose. — Anzi intendo vederla per contemplare ancora una volta il fine diverso di un'istessa passione in due temperamenti diversi, e diversamente educati. Imparare più che si può, dev'essere la legge suprema delle anime. Questa sete inestinguibile che abbiamo di sapere e che ci tormenta fino all'istante supremo non dipende da motivo alcuno apparente alla ragione individuale. Essa può benissimo rilevare dalla necessità d'un ordine più vasto che si dilata oltre la morte. Impariamo dunque, impariamo!... La natura sembra disperdere la pioggia a capriccio; ma ogni goccia per quanto minuta per quanto infinitesima è bevuta dalla terra, e trascorre poi per meati invisibili dove la richiama la soverchia aridità. L'ozio è un trovato della imbecillità umana; nella natura non v'è ozio, né cosa che sia inutile. — Dunque guarderete la Clara come il notomista che indaga un cadavere? — No, Carlo, ma guarderò lei come guardo me: per convincermi sempre più, anche nelle obiezioni apparenti dei fatti, che una ragione solo sommove spinge ed acqueta quest'umanità varia ed immensa; per provare ancora una volta colla costanza de' miei affetti, che essi tendono ad un'esistenza più vasta, ad un contentamento più libero e pieno che non si possa ottenere in questa fase umana dell'esser nostro. Perché se così non fosse, Carlo, io sarei ben pazzo ad amare chi mi affligge e mi disprezza; ma un'intima coscienza mi assicura che non sono pazzo per nulla, e che il mio giudizio è tanto retto tanto imparziale come può esserlo quello d'altr'uomo al mondo. — Ascoltatemi, com'è che non vi udii mai né stupirvi né sdegnarvi per l'incredibile cambiamento della Clara a vostro riguardo? Gli è già un pezzo che voleva chiedervene: ma mi sembra caso anche più maraviglioso della stessa pertinacia dell'amor vostro. — Com'è che non me ne stupii, e non ne ebbi sdegno? È piano il chiarirtelo. La Clara aveva l'anima disposta alle sublimi illusioni; e non poteva maravigliare di vedermela sfuggire per quella via; massime che io svagato da diversi pensieri m'era abbandonato ad una stupida sicurezza. Le donne ci possono fuggire per di sotto; allora è facile racquistarle ed è la disgrazia più comune, e il pericolo generalmente temuto. Io che mi sentiva certo da quella parte, non pensai all'altra. Guai guai quand'elle ci sfuggono per di sopra!... L'inseguirle è inutile, richiamarle è vano; nessun piacere è più grande della voluttà dei sacrifizi, nessun ragionamento vince la fede, nessuna pietà le distoglie dalla considerazione assoluta delle cose eterne!... E le donne, vedete, hanno maggior facilità di noi a vivere, direi quasi, oltre la vita. Come medico io ebbi occasione di convincermi che nessun uomo per quanto forte e sventurato uguaglia una misera donnicciuola nell'indifferenza della morte. Sembra ch'esse abbiano più chiaro di noi il presentimento d'una vita futura. Quanto poi al non aver preso in ira la Clara, prima di tutto, scusami, ma l'ira è sentimento da ragazzi; io poi non l'ebbi contro di lei perché la sua non fu ingiustizia ma allucinazione: ella credeva di amarmi meglio a quel modo, e di procurarmi non un piacer mondano e passeggiero, ma una contentezza celeste ed eterna. Figurati! Doveva anzi esserlene grato. Io ammirai la facilità colla quale Lucilio subordinava alla ragione i più fuggevoli e involontari movimenti dell'animo. A forza di costanza e di esercizio egli governava se stesso come un orologio; e passioni affetti pensieri si aggiravano in quel modo ch'egli avea loro prefisso. Bensì non si poteva dire che egli sentisse fiaccamente; anzi a conoscerlo bene bisognava confessare che soltanto con una pressura quasi sovrannaturale di volontà egli potea giungere a tener regolate e compresse le passioni che lo agitavano. Lucilio e la Clara si videro quasi tutte le sere durante quell'inverno, e la conversazione di casa Fratta ebbe più volte a scandolezzarsi delle violente scappate del vecchio dottore. Augusto Cisterna andava dicendo che si dovea perdonargli per la vecchiaia, ma la Clara portava più oltre la tolleranza, affermando che era sempre stato pazzo a quel modo e che Dio lo avrebbe scusato pei suoi buoni motivi. Ella aveva gran cura di non porre gli occhi addosso al dottore, forse perché così s'era votata di fare uscendo di convento; ma del resto tanta era la semplicità della sua fede e la ingenuità delle maniere che Lucilio ne sorrideva più di ammirazione che di scherno. Quello che si era mostrato contentissimo di rivedere il dottor Vianello, fu, non ve lo immaginereste mai, il conte Rinaldo. Ma ve ne spiego ora il motivo. Dalle sue diuturne incubazioni sui libri delle biblioteche era in procinto di nascere qualche cosa; un operone colossale sul commercio di Veneti da Attila a Carlo Quinto nel quale l'arditezza delle ipotesi, la copia dei documenti e l'acume della critica si sussidiavano a vicenda mirabilmente, come a quel tempo mi diceva Lucilio. Questi poi riuscì molto comodo all'autore per l'esame di certi punti parziali sui quali lo sapeva profondamente erudito; e infatti corressero insieme qualche proposta, ne ammendarono qualche altra. Lucilio faceva le grandi maraviglie di scoprire tanto tesoro di sapienza e tanto fervore d'amor patrio in quell'omiciattolo sucido e brontolone del conte Rinaldo; ma insieme anche indovinava le cause del fenomeno. — Ecco — diceva egli — ecco come si sfruttano, in tempo di errori e di ozii nazionali, le menti che vedono giusto e lontano, e le forze che non consentono di poltrire!... I loro affetti la loro attività si sprecano a rianimare le mummie; non potendo migliorare le istituzioni e studiare ed amar gli uomini, scavano antiche lapidi, macigni frantumati, e studiano ed amano quelli. È il destino quasi comune dei nostri letterati! Ma Lucilio

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Argomenti: tanto fervore,    grande studio,    sete inestinguibile,    vitalità universale,    vero conforto

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