Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 194

Testo di pubblico dominio

suoi torti a Napoleone, quand'egli unisce Venezia al Regno d'Italia. Tarda penitenza d'un vecchio peccato veniale, per la quale vo in fil di morte; ma la Pisana mi risuscita e mi mena secolei in Friuli. Divento marito, organista e castaldo. Intanto i vecchi attori scompaiono dalla scena. Napoleone cade due volte, e gli anni fuggono muti ed avviliti fino al 1820. Lucilio s'era rifugiato a Londra; egli aveva amici dappertutto e d'altra parte per un medico come lui tutto il mondo è paese. La Pisana mi avea sempre tenuto a bada colle sue promesse di venirmi a raggiungere: allora poi, dopo abbandonato l'ufficio, non avea nemmen coraggio di chiamarla a dividere la mia povertà. A Spiro e all'Aglaura sdegnava di ricorrere per danari; essi mi mandavano puntualmente i miei trecento ducati ad ogni Natale; ma ne avea erogato due annualità a pagamento dei debiti lasciati a Ferrara, e di quelle non poteva giovarmi. Rimasi adunque per la prima volta in vita mia senza tetto e senza pane, e con pochissima abilità per procurarmene. Volgeva in capo mille diversi progetti per ognuno dei quali si voleva qualche bel gruppetto di scudi, non foss'altro per incominciare; e così di scudi non avendone più che una dozzina, mi accontentava dei progetti e tirava innanzi. Ogni giorno mi studiava di vivere con meno. Credo che l'ultimo scudo lo avrei fatto durare un secolo se il giorno della partenza di Napoleone per la Germania non me lo avesse rubato uno di quei famosi borsaiuoli che si esercitano per pia consuetudine nelle contrade di Milano. L'Imperatore s'era fatto grasso, e s'avviava allora alla vittoria di Austerlitz; io me lo ricordava magro e risplendente ancora delle glorie d'Arcole e di Rivoli: per diana, che non avrei dato il Caporalino per Sua Maestà! Vedendolo partire fra un popolo accalcato e plaudente io mi ricordo di aver pianto di rabbia. Ma erano lagrime generose, delle quali vado superbo. Pensava fra me: “Oh che non farei io se fossi in quell'uomo!” — e questo pensiero e l'idea delle grandi cose che avrei operato mi commovevano tanto. Infatti era egli allora all'apice della sua potenza. Tornava dall'aver fatto rintronare de' suoi ruggiti le caverne d'Albione attraverso l'angusto canale della Manica; e minacciava dell'artiglio onnipotente le cervici di due imperatori. La gioventù del genio di Cesare e la maturità del senno di Augusto cospiravano ad innalzare la sua fortuna fuor d'ogni umana immaginazione. Era proprio il nuovo Carlomagno e sapeva di esserlo. Ma anch'io dal mio canto inorgogliva di passargli dinanzi senza piegare il ginocchio. “Sei un gigante ma non un Dio!” gli diceva “io ti ho misurato e trovai la mia fede più grande di molto e più eccelsa di te!” Per un uomo che credeva d'aver in tasca uno scudo e non aveva neppur quello, ciò non era poco. Il bello si fu quando si trattò di mangiare; credo che uomo al mondo non si vide mai in peggior imbroglio. Partendo da Bologna e giovandomi della discretezza d'alcuni amici avea fatto denari d'ogni spillone d'ogni anello e d'ogni altra cosa che non mi fosse strettamente necessaria. Tuttavia facendo un nuovo inventario seppi trovare molti capi di vestiario che mi sopravanzavano; ne feci un fardello, li portai dal rigattiere e intascai quattro scudi che mi parvero un milione. Ma l'illusione non durò più che una settimana. Allora cominciai a dar il dente anche negli oggetti bisognevoli; camicie, scarpe, collarini, vestiti, tutto viaggiava dal rigattiere; avevamo fatto tra noi una specie di amicizia. La sua bottega era sul canto della contrada dei Tre Re verso la Posta; io mi vi fermava a far conversazione andando da casa mia verso Piazza del Duomo. Alla fine diedi fondo ad ogni mia roba. Per quanto in quel frattempo avessi strolicato sulla maniera da cavarmela in un caso tanto urgente, non m'era venuta neppur un'idea. Una mattina avea incontrato il colonnello Giorgi che veniva dal campo di Boulogne e correva anch'esso in Germania colla speranza d'esser fatto in breve generale. — Entra nell'amministrazione dell'armata: — mi diss'egli — ti prometto farti ottenere un bel posto, e ti farai ricco in poco tempo. — Cosa si fa nell'armata? — soggiunsi io. — Nell'armata si vince tutta l'Europa, si corteggiano le più belle donne del mondo, si buscano delle belle paghe, si fa gran scialo di gloria e si va innanzi. — Sì, sì; ma per conto di chi si vince l'Europa? — Vattelapesca! c'è senso comune a cercarlo? — Alessandro mio, non entrerò nell'armata, neppur come spazzino. — Peccato! ed io che sperava far di te qualche cosa! — Forse non avrei corrisposto, Alessandro! È meglio che concentri tutte le tue cure verso di te. Diventerai generale più presto. — Ancora due battaglie che mi sbarazzino di due anziani e lo sono di diritto: le palle dei Russi e dei Tedeschi sono mie alleate: questo è il vero modo di vivere in buona armonia con tutti. Ma dunque tu vuoi proprio tenerci il broncio a noi poveri soldati? — No, Alessandro; vi ammiro e non son capace d'imitarvi. — Eh capisco! ci vuole una certa rigidezza di muscoli!... Dimmi, e di Bruto Provedoni hai notizie? — Ottime si può dire. Vive con una sua sorella di diciotto o diciannove anni, l'Aquilina, te ne ricordi? le fa da papà, le viene accumulando un po' di dote e si guadagna la vita col dar lezioni in paese. Ultimamente coll'eredità di suo fratello Grifone, ch'è morto a Lubiana per una caduta da un tetto, egli comperò dagli altri fratelli la casa a nome proprio e della sorella. Così si liberò anche dalla noia di vivacchiare stentamente insieme ad altri inquilini cenciosi e pettegoli. Credo che se potesse accasare decentemente l'Aquilina non sarebbe uomo più beato di lui. — Vedi come siamo noi soldati?... Restiamo felici anche senza gambe! — Bravo, Alessandro: ma io non voglio perder le gambe per nulla. Son capitali che bisogna investirli bene o tenerseli. — E dici nulla tu, in otto anni al più diventar generale! Non è un bell'interesse? — Sì a me garba meglio restar con questo vestito e colla mia miseria. — Dunque non posso aiutarti in nulla? To' che potrei servirti d'una trentina di scudi; non più, vedi, perché non sono il soldato più sparagnino, e tra il giuoco, le donne e che so io, la paga se ne va... Ma ora che ci penso; t'adatteresti anche a pigliar servizio nel civile? Il buon colonnello non vedeva nulla fuori dell'armata: egli avea già dimenticato che un quarto d'ora prima gli avea raccontato tutta la mia carriera nelle Finanze, e la mia dimissione volontaria dal posto d'intendente. Fors'anco supponeva che le Finanze non fossero altro che uffici supplettori all'esercito per provvederlo di vitto di vestito e del convenevole peculio per sostenere gli assalti del faraone e della bassetta. Alla mia risposta che mi sarei contentato d'ogni impiego che non fosse pubblico, egli fece col viso un certo atto come di chi è costretto a togliere ad alcuno buona parte della sua stima: tuttavia non ne rimase affievolita per nulla la sua insigne bontà. — A Milano ho una padrona di casa — egli soggiunse. — Sì, come l'avevi a Genova. — Eh! Tutt'altro! Quella era spilorcia come uno speziale, questa invece splendida più d'un ministro. A quella ho dovuto rubare il gatto, e da questa se volessi potrei farmi regalare un diamante al giorno. È una riccona sfondata, che ha corso il mondo a' suoi tempi, ma ora dopo una vistosa eredità s'è rimessa in regola ed ha voce di compita signora: non più colla lanuggine del pesco sulle guance, ma vezzosa ancora e leggiadra al bisogno; massime poi in teatro quand'è un po' animata. Figurati! Essa mi ha preso a volere un bene spropositato ed ogni volta che passo per Milano mi vuole presso di sé: mi ha perfin detto in segreto che se avesse vent'anni invece di trenta vorrebbe partir con me per la guerra. — E che c'entra questa signora con me? — Che c'entra? diavolo! tutto! Essa ha molte relazioni ben in alto; e ti raccomanderà validamente per quel

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Argomenti: senso comune,    capo mille,    vecchio peccato,    due annualità,    nuovo inventario

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