Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 170

Testo di pubblico dominio

tutti gli incommodi di chi trotta sopra un cavallo da mugnaio. Le carrettelle del Vicentino e dell'alto Vicentino non ci avevan nulla a che fare; somigliavano gondole a paraggio di questi frulloni. Or dunque arrivai a Bologna coi nervi tutti offesi e accavalcati; fu per istirarmeli che mi accinsi pedestre al passaggio dell'Appennino. Oh qual viaggio incantevole! oh che scene da paradiso!... Credo che se fossi stato proprio felice di dentro, avrei detto anch'io al Signore, come san Pietro: “Vi prego, piantiamo qui i nostri padiglioni”. Ho poi udito dire che ci domini troppo il vento in quegli ingroppamenti di montagne; ma allora, benché ridesse appena lievemente la primavera, era tuttavia una pace un tepore una ricchezza di colori e di forme in quel cantoncino di mondo, che ben ci si accorgeva di essere sulla strada di Firenze e di Roma. Giunto poi a Pratolino donde l'occhio divalla sulla sottoposta Toscana il mio entusiasmo non conobbe misura; e credo che se avessi conosciuto i piedi e gli accenti, avrei improvvisato un cantico sul fare di quello di Mosè. Quanto sei bella, quanto sei grande, o patria mia, in ogni tua parte!... A cercarti cogli occhi, materia inanimata, sulle spiagge portuose dei mari, nel verde interminabile delle pianure, nell'ondeggiare fresco e boscoso dei colli, tra le creste azzurrine degli Appennini e le candidissime dell'Alpi, sei dappertutto un sorriso, una fatalità, un incanto!... A cercarti, spirito e gloria, nelle eterne pagine della storia, nell'eloquente grandezza dei monumenti, nella viva gratitudine dei popoli, sempre apparisci sublime, sapiente, regina! A cercarti dentro di noi, intorno a noi, tu ti nascondi talora per vergogna la fronte; ma te la rialza la speranza, e gridi che delle nazioni del mondo tu sola non moristi mai! Allora infatti l'Italia era forse ai primordi della sua terza vita; primordi ignari e sconvolti come i primi passi d'un bambino. In Toscana come in Piemonte v'aveva la strana sconcordanza d'un principe che regnava e d'un general francese che imperava. Parevami proprio vedere i re della Bitinia, della Cappadocia o di Pergamo con Silla, Lucullo, e quegli altri dabbenuomini ai panni. Morivano essi lasciando erede il popolo romano; ma né Lucullo né Silla né i generali francesi di sessant'anni fa avevano scrupolo di prelevare qualche legato... A Firenze trovai il Carafa, ma non l'intera legione che s'era avviata verso Ancona per le rimostranze di neutralità fatte dal Granduca. Il signor Ettore pareva molto pensieroso; io credeva pensasse ai suoi soldati, ma egli si stizzì anzi ch'io glieli avessi recati a mente. Malediceva a denti stretti le donne, dicendo ch'è una vera sciocchezza la nostra il degnarsi di uscire alla luce da cotali demonii. — Diavolo, capitano, e donde vorreste nascere? — gli chiesi. — Dal Vesuvio, dall'Etna, dai gorghi tempestosi del mare! — egli mi rispose. — Non già da questi mostricciuoli armati di forza viperea che si vendicano di averci fatto nascere col toglierci oncia ad oncia la vita!... — Capitano, siete proprio infelice e pessimista in amore?... — Lo credo io!... Con un'amante che mi ama e non mi ama; cioè mi ha amato o si è lasciata amare come vorrei io una settimana, ed ora vuol amarmi alla sua maniera, che è la più strana ed insopportabile della terra! — Quale maniera, capitano? — Quella dei datteri, che fanno all'amore l'uno in Sicilia e l'altro in Barberia. Io ne risi un poco di questo paragone; ma in fondo in fondo quando si veniva sul discorso di guai amorosi ci aveva pochissima voglia di ridere. Siccome poi non reputava il signor Ettore maestro consumato in tali faccende, e del resto gli voleva bene assai, così mi presi la libertà di suggerirgli un consiglio. — Offendetela nella superbia — gli dissi. — Improvvisatele una rivale. — Vedrò: — soggiunse egli — intanto tu raggiungi i nostri ad Ancona. A Roma ti saprò dire della bontà o meno del tuo consiglio, che mi ha idea di esser molto vecchio e corrotto dal lungo uso. — Sapienza vecchia dà frutto nuovo — io replicai. E corsi via per vedere così all'ingrosso Firenze, prima di ripartire per le Marche. A Firenze tutto mi piacque meno l'Arno, che per avere così bel nome, è molto piccolo fiume. Però giustizia vuole si osservi che tutti i fiumi soffrono dal più al meno un tal calo sopra i meriti decretati loro dalla fama. Io trovai soltanto il Tamigi che attenesse la promessa; ed anco fui avvilito di vederlo andar a ritroso ad un minimo buffo d'aria. Per un così immenso fiume l'è invero arrendevolezza schifosa! Ma quanti uomini grossi che somigliano al Tamigi! Quante donne che somigliano a Londra! cioè, scusatemi, s'appoggiano volentieri a un fiume che ha molta acqua, molta vastità e dubbia corrente!... Vi fu un pacioloso padovano che in una nota barcarola cantava alla sua bella: ‘ Vieni, somiglia a Londra, Sei un basin d'amor! ’ Egli non avrebbe creduto che io sudassi tanto un giorno per giustificare la lezione un po' arrischiata della sua strofa. Dall'Arno all'Adriatico furono tre giorni; e da Ancona a Roma dieci, perché s'avanzava coll'intera legione e non essendo avvezzi a camminar molto, bisognava cominciare con precauzione. Allora ebbi agio a convincermi che i primi nemici che un esercito nuovo incontra nelle sue imprese sono i polli ed i preti. Non valevano né minacce né rimproveri né castighi. Pollo voleva dir schioppettata, e prete burle e baldoria. Ammazzavano i polli per mangiarli in casa del prete e bere del suo vino; del resto tutto finiva lì, e se gli abati erano gente della legge, con un cicino di disinvoltura e una patina politica finivamo col separarci ottimi amici. Uno di cotali arcipreti bastava per un giorno a far propendere in favore di Pio VI gli animi della intera legione; gli è vero che a quel tempo il cardinal Chiaramonti aveva messo d'accordo Religione e Repubblica colla sua famosa Omelia, e si poteva propendere in favore di tutti. Per me, più vado innanzi e più m'avvedo che ogni religione ci guadagna assai a tenersi lontana dalla politica; gli è inutile; né l'olio si mescolerà mai coll'aceto, né il sentimento alla ragione, senzaché nascano sostanze spurie e scipite. Eccoci finalmente a Roma. Io ne aveva una voglia che non ne poteva più. Sentiva che Roma solamente avrebbe potuto farmi dimenticar la Pisana; e mentre pur mi confidava in una cotale dimenticanza, andava almanaccando che cosa ne poteva esser di lei, architettava conghietture, creava e ingigantiva paure, dava corpo e movimento alle ombre più mostruose che si potessero vedere. I suoi cugini di Cisterna, capitati da poco a Venezia, Agostino Frumier, quello slavo, Raimondo Venchieredo, lo schernitore, mi parevano ad ora ad ora altrettanti rivali; ma tutte quelle supposizioni svanirono quando lettere dell'Aglaura e di Spiro mi confermarono l'assenza della Pisana e che la sua famiglia nulla sapeva e poco curava sapere di lei. La Contessa pappava il frutto degli ottomila ducati e le bastava; il conte Rinaldo passava dall'ufficio alla Biblioteca, dalla Biblioteca alla tavola e al letto senza darsi pensiero che altri uomini vivessero al mondo: ambidue miserabili, miserabilissimi; ma non si curavano di affannarsi pegli altri. Convenite con me che se non eroismo fu certamente una bella costanza la mia di starmene a ordinar piuoli e a comandar movimenti sul monte Pincio, mentre avrei corso e frugato tutto il mondo per trovar la mia bella! La amava, sapete, proprio più che me stesso; e per me che non vendo ciurmerie di frasi ma faccio professione di narrare la verità, questo è tutto dire. Nonostante aveva il coraggio di metter innanzi la patria, e benché facessi allora uno sforzo a inchiudere anche Napoli in quest'idea, Roma mi aiutava a vincer la prova. Roma è il nodo gordiano dei nostri destini, Roma è il simbolo grandioso e multiforme della nostra schiatta, Roma è la nostra arca di salvazione, che colla sua luce snebbia d'improvviso tutte le

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