Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 132

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vi fanno colpevole mortalmente dinanzi a Dio! Non oltraggiate la santità di quelle anime che sposano su questa terra il loro Creatore per renderlo più clemente verso i loro fratelli d'esilio!... — Anime ipocrite, anime false e corrotte — esclamò digrignando Lucilio — le quali adoperano per accalappiare per domare altre anime semplici e deboli!... — No, signor dottore carissimo; non voglia calunniarci così alla cieca — entrò a dire con voce secca e nasale la madre compagna. — Queste anime ipocrite che sacrificano la vita intiera per afforzare e per salvare le deboli, sono le sole che difendano omai la fede e i buoni costumi contro le perversità mondane. È merito loro se molte anime deboli diventano così forti e sublimi da appoggiare ogni speranza in Dio, e da riguardar le parole d'un semplice voto come una barriera insuperabile che le divide per sempre dal consorzio dei tristi e degli increduli. Gli è vero — soggiunse ella chinando il capo — che restiamo congiunte ad essi col vincolo spirituale dell'orazione, la quale, vogliamo sperarlo, gioverà a salvarne qualcuno dagli artigli infernali. — Oh presto presto i tristi e gli increduli sciorranno i vostri voti! — sclamò Lucilio con voce tonante. — La società è opera di Dio e chi si ritragge da essa ha il rimorso del delitto o la codardia dello spavento, o la dappocaggine dell'inerzia nell'animo!... — In quanto a voi (e si volgeva specialmente alla Clara), in quanto a voi che avete pervertito la coscienza vostra disumanandola, quanto a voi che salite al cielo calpestando il cadavere d'uno che vi ama, che non vede, che non vive, che non pensa che per voi, oh abbiatevi sul capo l'ira e la maledizione... — Basta Lucilio! — sclamò la donzella con piglio solenne. — Volete saper tutto? Or bene ve lo dirò!... I voti ch'io pronuncerò domenica solennemente dinanzi all'altare di Dio, li ho già espressi col cuore dinanzi al medesimo Dio in quella notte fatale che i nemici della religione e di Venezia entrarono in questa città. Fummo otto ad offerire la nostra libertà la nostra vita per l'allontanamento di quel flagello, e se quegli infami quegli scellerati saranno costretti ad abbandonare la preda sì vilmente guadagnata, Dio avrà forse benignamente riguardato il nostro sacrifizio!... La madre Redenta ghignò sotto la cuffia, Lucilio dimise un poco del suo furore e mosse alcun passo verso l'uscio: indi tornò presso la Clara quasi gli fosse impossibile di abbandonarla a quel modo. — Clara — riprese egli — io non vi pregherò più; lo veggo, sarebbe inutile. Ma vi darò lo spettacolo di tanta infelicità che i rimorsi vi perseguiteranno fin nel silenzio e nella pace del chiostro. Oh voi non sapete, non avete mai saputo quanto vi amassi!... Non avete misurato gli abissi profondi ed infiammati dell'anima mia tutti pieni di voi: non avete dimenticato voi stessa, come io dimenticava affatto me, per vivere sempre in voi. I sacrifizi ve li imponete con mille sottigliezze mentali, non li accettate dalla santa spontaneità dell'affetto e del sentimento!... Clara, io vi lascio a Dio, ma Dio vi vorrà egli?... L'adulterio è egli permesso da quei santi comandamenti che sono il sublime compendio dei nostri doveri? Non so se così parlando Lucilio intendesse di capitolare o di tentare un ultimo colpo. Del resto fra lui e la Clara combattevano come due schermitori fuori di misura, contendevano come due litiganti ognuno de' quali adoperava una lingua sconosciuta all'altro. La madre Redenta trionfava sotto la sua cuffia di quel potente e instancabile macchinatore che, si può dire, aveva dato l'ultimo crollo ad un governo di quattordici secoli, e mutato faccia ad una bella parte di mondo. Perché mai godeva ella di adoperare così?... Prima di tutto perché non v'ha orgoglio che superi l'orgoglio degli umili; indi perché si vendicava sugli altri della infelicità propria, e da ultimo perché voleva mantenere alla Contessa ciò che le aveva promesso. Dopo tanti anni di lento lavorio ammirava allora nella costanza della Clara l'opera propria, e non avrebbe dato quei momenti per l'abbazia più cospicua dell'Ordine. Quanto a Lucilio, dopo tanti anni di fatica, di perseveranza e di sicurezza, dopo aver superato ogni impedimento, e atterrato ogni ostacolo, vedersi respinto senza remissione dallo scrupolo divoto d'una donzella, e non poter conquidere un'anima dov'egli sapeva di regnar ancora, era per lui un delirio che vinceva la stessa immaginazione!... Con ogni sforzo di mente e di cuore era giunto là dove era impossibile l'avanzare e il retrocedere: era giunto a diffidare di sé, dopo una sì lunga sequela di continui trionfi. La fiducia avuta per l'addietro aggiungeva alla sconfitta una vera disperazione. Tuttavia non credo ch'egli si desse per vinto: giacché egli era di quella tempra che cede solamente alla frattura della morte. Ma l'amore diventò in lui rabbia, odio, furore: e in quelle ultime parole rivolte amaramente alla Clara la sola superbia lottava forse ancora. L'amore s'era sprofondato dentro l'anima sua ad attizzarvi un incendio di tutte quelle passioni che prima servivano a lui ubbidienti e quasi ragionevoli. La donzella nulla rispose agli insulti ch'egli le scagliava; ma quel silenzio esprimeva più cose d'un lungo discorso, e Lucilio tornò a saltargli contro con un impeto di rimbrotti e d'imprecazioni, come il toro furibondo, che impedito di uscir dall'arena, si spacca il cranio contro lo steccato. Infuriò a sua posta con grande scandalo della madre Redenta, e molta compassione della Clara: indi la volontà riebbe il freno di quelle furie scomposte, e fu tanto forte e orgogliosa da persuaderlo ad andarsene, lasciando per ultimo saluto alla donzella uno sguardo di pietà insieme e di sfida. Lo ripeto ancora che la ferita dell'orgoglio fu in lui forse più profonda che quella dell'amore; infatti anche in quei terribili momenti egli ebbe campo a pensare di ritirarsi coll'onor delle armi. Io sarei morto ingenuamente di crepacuore; egli si sforzò a vivere per persuadere se stesso che delle proprie passioni della propria vita egli era sempre il solo padrone. Fosse poi vero non potrei assicurarlo. Anzi io mi ricordo averlo veduto a quei giorni; e benché fossi anche troppo occupato de' casi miei, pure non mi sfuggì affatto una tal quale costernazione ch'egli si studiava indarno di celare sotto la solita austera imperturbabilità. A poco a poco peraltro vinse l'uomo vecchio; egli si rizzò ancora, l'orgoglioso gigante, dalla sua breve sconfitta; le sventure della patria lo trovarono forte invincibile a sopportarle; forse tanto più forte ed invincibile quanto era più disperato di sé. La Clara pronunciò solennemente i suoi voti, e Lucilio serbò tutta per sé l'angoscia e la rabbia per questa perdita irrimediabile. La Pisana si sposò poco dopo al nobiluomo Navagero: e Giulio Del Ponte li seguì all'altare col sorriso della speranza sul volto. Egli non l'amava come l'amava io. Io solo adunque rimasi a fare spettacolo per ogni luogo del mio furore del mio accoramento. Non potea darmi pace, non potea pensar al futuro senza rabbrividire; eppur non osava neppur allora nei delirii del dolore maledire alla Pisana; e tutte le mie maledizioni le serbava per la Contessa che aveva avvilito la propria figlia in un matrimonio mostruoso per godere l'abbondanza e le comodità di casa Navagero. Seppi poi di più, che anche le astuzie adoperate per imbigottire la Clara dipendevano da una questione di quattrini. La vecchia non avea pagato al convento che metà della dote e promesso il resto ed assicuratolo sopra le sue gioie: ma lo scrigno era vuoto, le gioie brillavano al Monte di Pietà, ed essa temeva sul serio che la Clara maritandosi le avrebbe chiesto conto di ogni suo avere. Ecco molti guai dovuti alla smania troppo furiosa d'una dama per la bassetta e pel faraone. Il conte Rinaldo si era salvato da quella rovina e dal disonorevole patrocinio del cognato accettando un

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Argomenti: grande scandalo,    vincolo spirituale,    semplice voto,    barriera insuperabile,    medesimo dio

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