Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 145

Testo di pubblico dominio

voleva far dei milioni, e lo scopo lo avrei raggiunto in seguito. Ti confesso che una moglie mi impicciava non poco. Mi si guastò l'umore; la crudeltà con cui io tiranneggiava me stesso riducendo i miei bisogni allo strettissimo necessario, fu creduta da essa una maniera trovata apposta per martoriarla. Le mie continue lontananze e le preoccupazioni di quel grande disegno che mi frullava sempre in capo davano motivo ad alterchi, a risse continue. Ella finì col trovarsi ottimamente in qualunque compagnia turca o rinnegata che non fosse la mia. Sovente tornando a casa io udiva le sue stridule risate veneziane che echeggiavano dietro le persiane; la mia presenza rimenava la stizza, le sgrugnate, le lagrime. Sopratutto al fianco di quel tal fellah mia moglie dimenticava assai facilmente il marito burbero e lontano. “Allora intervenne a me quello che spesso succede nei temperamenti né troppo generosi né abbastanza sinceri. Divenni geloso; ma forse in fondo in fondo mi accorgeva che la gelosia era un appiglio per dar tanta noia a mia moglie ch'ella fosse costretta ad abbandonarmi. Ti giuro ch'io aspettava con impazienza da parte sua una qualche scena di disperazione, e una domanda assoluta di tornare a Venezia. Ma era ben lontano dal temere una fuga. Ella era paurosa dilicata e piuttosto portata a parlare che a fare. La sua improvvisa partenza mi sorprese e mi accorò non poco; ma io era allora in Persia, non tornai che un mese dopo quando non m'era possibile neppur tentar di raggiungerla. Fitto piucchemai il capo nella mia impresa d'arricchire, tutti i pensieri che me ne stornavano li riguardava come tanti nemici; tu saprai già, oppure ti sarà facile comprendere quello stato dell'animo nostro nel quale si propende a creder vero ed ottimo ciò che piace; e a forza di abitudine lo si crede infatti. Per attutare i rimorsi che mi inquietavano, io mi persuasi che la mia gelosia non era senza un buon motivo, e che io non ci aveva colpa della gravidanza di mia moglie. M'accostumai sì bene a questa commoda opinione che non mi diedi più pensiero né di essa né di ciò che fosse nato da lei. “Seppi che o bene o male l'era giunta a Venezia; e contento di ciò e d'esser finalmente libero da un legame che mi importunava, mi diedi a tutt'uomo e con maggior pertinacia ai miei negozi. Solo tornando in patria coi sognati milioni già coniati in bei zecchini e in grossi dobloni mediante la mia costanza, io ebbi il tempo di pescare per ozio nelle carte lasciatemi da tua madre. Una navigazione di quarantadue giorni mi diede commodità di meditarvi sopra a lungo. Perciò sbarcato a Venezia ti rividi con discreto piacere: e i sospetti concepiti intorno alla tua nascita s'andavano dileguando. Ma cosa vuoi? ci riesciva a stento. Sentiva di darmi la zappa sui piedi, e di fare come quei corbelli che dopo aver celato un delitto per vent'anni, corrono a confessarlo al giudice per farsi appiccare. Mi maraviglio e mi maraviglierò sempre che la mia morale levantina abbiami consentito questo dannoso pentimento. Gli è vero che coi Turchi e cogli Armeni io era avvezzo a trattare come colle bestie; e a mercanteggiarli ed assassinarli senza scrupolo; ma non aveva mai messo le unghie in carne cristiana, e tua madre, vivaddio! checché ne dica sua sorella contessa, era cristiana più di alcuno fra noi. “Fors'anco l'interesse mi conduceva a ravvedermi di quegli ingiusti sospetti. La risurrezione di casa Altoviti s'era assorellata poco a poco nella mia mente alla risurrezione di Venezia; e sperai, come si dice, di prendere due colombi ad una fava. Io m'era adoperato assai a Costantinopoli per volgere i Turchi a romperla colla Sacra Alleanza e divertirne le forze dalla Germania e dall'Italia. Riuscito se non altro a tenerli in bilico, aveva qualche merito presso i Francesi, creduti allora così alla lontana i rinnovatori del mondo. Col favor dei Francesi, coll'aiuto dei cospiratori interni che facevano capo a me nelle loro mene d'Oriente, colla mia perspicacia, coi miei milioni sperava di adoperare in modo che un giorno o l'altro sarebbero state in mia balìa le sorti della Repubblica. Ti spaventi? Eppure ci mancò poco; mancò solamente la Repubblica. Soltanto che io scopersi di essere un po' vecchio: e qui potrei farmi un merito!... Potrei dire che l'essermi confessato vecchio appena mi scontrai con te, fu un buon movimento dell'animo che m'induceva a rappezzare i torti commessi. Comunque la sia, lascio volentieri in ombra questi profondi motivi delle mie azioni che balenano appena in quel barlume di coscienza che m'è rimasto; e non mi faccio bello di virtù piuttosto dubbie che certe. Io ti vidi, ti abbracciai, ti tolsi per mio vero e legittimo figliuolo, ti amai col maggior cuore che aveva, e collocai in te ogni mia ambizione. La tua domestichezza aggiunse forza e dolcezza a tali sentimenti; e con questo che ora ti scrivo sembrami darti una prova che sono tuo padre davvero. “In procinto di tornare alla mia vita avventurosa e piena di pericoli per inseguir ancora quel fantasma che mi è sfuggito quando appunto credeva di averlo fra le braccia, sul momento di imbarcarmi per una spedizione che potrebbe finire colla morte, non volli tacere un ette di quanto riguarda i nostri legami di sangue. Ho una gran vendetta da compiere, e la tenterò con tutti quei mezzi che la fortuna mi consente: ma tu sei ancora a parte delle mie speranze, e compìto quel grande atto di giustizia, a te s'aspetterà di raccoglierne l'onore ed il frutto. Per questo volli che tu rimanessi, oltreché per le altre ragioni che ti espressi a voce. Bisogna che tu stia sotto gli occhi de' tuoi concittadini per accaparrartene l'affetto e la stima. Rimani, rimani, figliuol mio! Il fuoco della gioventù serpeggia nella gente da Venezia a Napoli; chi pensa di valersene per far carbone a proprio profitto, potrebbe da ultimo trovare un qualche intoppo. Così almeno io confido che sarà. Se a me stesse designarti un posto, sceglierei Ancona o Milano; ma tu sarai giudice migliore secondo le circostanze. Intanto hai saggiato a prova questi ciarloni francesi; volgi contro di essi le loro arti; usane a tuo vantaggio, com'essi abusarono di noi a lor solo giovamento. Pensa sempre a Venezia, pensa a Venezia, dove erano i Veneziani che comandavano. “Ora nulla ti è nascosto; puoi giudicarmi come meglio ti aggrada, perché se non ti ho fatto colla viva bocca questa confessione fu solamente a cagione dell'esser io il padre e tu il figliuolo. Non voleva difendermi, voleva raccontare: vedi anzi che ho filosofato più del bisogno per chiarire la parte così ai buoni come ai cattivi sentimenti. Giudicami adunque, ma tien conto della mia sincerità, e non dimenticare che se tua madre fosse al mondo ella godrebbe di vederti amoroso ed indulgente figliuolo”. Scorsa questa lunga lettera tanto diversa dalla consueta cupezza di mio padre, e nella quale l'indole di lui si scopriva intieramente colle sue buone doti, coi suoi molti difetti, e col singolare acume del suo ingegno, rimasi qualche tempo soprappensiero. Ebbi finalmente la buona ispirazione di sollevarmi anch'io all'altezza delle cose sante ed eterne; là trovai scolpito a caratteri indelebili quel comandamento che è proprio degno di Dio: Onora tuo padre e tua madre . Questo duplice affetto non può separarsi; e l'onorare mia madre implicava in sé di perdonare a colui, al quale certo ella avrebbe perdonato vedendolo compunto e pentito del suo tristo ed obliquo operare. Per giunta debbo io confessarlo?... Quel temperamento duro e selvaggio ma tenace ed intero di mio padre esercitava sul mio una certa violenza: i piccoli sono sempre disposti ad ammirare i grandi; quando poi li spinga il dovere, l'ammirazione loro trascende ogni misura. Pensai, pensai; e resi spontaneamente tutto il mio cuore a quel solo che me lo chiedeva col sacro diritto del sangue. Quali fossero quei nuovi disegni che lo richiamavano in Levante, non mi venne fatto neppure d'immaginarmeli. In

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Argomenti: lettera tanto,    grande disegno,    marito burbero,    giudice migliore,    singolare acume

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