Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 9

Testo di pubblico dominio

mezzano campagnuolo fra la signoria e il contadiname. Cosa fosse davvero, sarebbe un intruglio a volerlo capire; ma cosa volesse sembrare posso dirlo in due tratti di penna. Voleva sembrare umilissimo servitore nei castelli e confidente del castellano e perciò secondo padrone in paese. Chi aveva buona indole volgeva a bene questa singolare ambizione, e chi era invece taccagno, scroccone o cattivo, ne era tirato alla più bassa e doppia malvagità. Ma ser Andreini andava primo fra i primi; poiché se era accorto e chiacchierone, aveva in fondo la miglior pasta del mondo, e non avrebbe cavata l'ala ad una vespa dopo esserne stato beccato. I servitori, gli staffieri, il trombetta, la guattera e la cuoca erano pane e cacio con lui; e quando il Conte non gli era fra i piedi, scherzava con esso loro e aiutava il figliuolo del castaldo a spennar gli uccelletti. Ma appena capitava il Conte, si ricomponeva per badare solamente a lui, quasiché fosse sacrilegio occuparsi d'altro quando si godeva della felicissima presenza d'un giurisdicente. E secondo i probabili desiderii di questo, egli era il primo a ridere, a dir di sì, a dir di no, e perfino anche a disdirsi se aveva sbagliato colla prima imbroccata. C'era anche un certo Martino, antico cameriere del padre di Sua Eccellenza, che bazzicava sempre per cucina, come un vecchio cane da caccia messo fra gli invalidi: e voleva ficcare il naso nelle credenze e nelle cazzeruole, con gran disperazione della cuoca, brontolando sempre contro i gatti che gli si impigliavano nelle gambe. Ma costui essendo sordo e non piacendosi troppo di ciarlare, non entrava per nulla nella conversazione. Unica sua fatica era quella di grattare il formaggio. Gli è vero che colla flemma naturale tirata ancor più a lungo dall'età, e collo straordinario consumo di minestra che si faceva in quella cucina, una tale fatica lo occupava per molte ore del giorno. Mi par ancora d'udire il romore monotono delle croste menate su e giù per la grattugia con pochissimo rispetto delle unghie; in premio della qual parsimonia il vecchio Martino aveva sempre rovinate e impiastricciate di ragnateli le punte delle dita. Ma a me non istarebbe il prendermi beffa di lui. Egli fu, si può dire, il mio primo amico; e se io sprecai molto fiato nel volergli scuotere il timpano colle mie parole, n'ebbi anche per tutti gli anni che visse meco una tenera ricompensa d'affetto. Egli era quello che mi veniva a cercare quando qualche impertinenza commessa mi metteva al bando della famiglia; egli mi scusava presso Monsignore, quando invece di servirgli messa scappava nell'orto ad arrampicarmi sui platani in cerca di nidi; egli testimoniava delle mie malattie, quando il Piovano davami la caccia per la lezione di dottrina; e se mi cacciavano a letto, era anche capace di prender l'olio o la gialappa in mia vece. Insomma fra Martino e me eravamo come il guanto e la mano, e s'anco entrando in cucina non giungeva a discernerlo pel gran buio che vi regnava in tutta la giornata, un interno sentimento mi avvertiva se egli vi era, e mi menava diritto a tirargli la parrucca o a cavalcargli le ginocchia. Se poi Martino non vi era, tutti mi davano la baia perché restava così mogio mogio come un pulcino lontano dalla chioccia; e finiva col darla a gambe indispettito, a menoché una raschiata del signor Conte non mi facesse prender radici nel pavimento. Allora io stava duro duro che neppur la befana m'avrebbe fatto muovere; e soltanto dopo ch'egli era uscito riprendeva la libertà del pensiero e dei movimenti. Io non seppi mai la ragione di un sì strano effetto prodotto sopra di me da quel vecchio lungo e pettoruto; ma credo che le sue guarnizioni scarlatte mi dessero il guardafisso come ai polli d'India. Un'altra mia grande amicizia era il cavallante che a volte mi toglieva di groppa e menavami nelle sue gite di piacere per l'affissione dei bandi e simili faccende. Io poi non aveva pei coltelli e per le pistole un odio simile a quello del Capitano Sandracca; e durante la via frugava sempre per le tasche a Marchetto per rubargli il pugnale e far con esso mille attucci e disfide ai villani che s'incontravano. Una volta fra le altre che s'andava a Ramuscello a recar una citazione al castellano di colà, e il cavallante avea preso seco le pistole, frugandogli per le tasche ad onta delle pestate di mani ch'egli mi avea dato poco prima, feci scattare il grilletto, e n'ebbi un dito rovinato; e lo porto ancora un po' curvo e monco nell'ultima falange in memoria delle mie escursioni pretoriali. Quel castigo peraltro non mi guarì punto della mia passione per le armi; e Marchetto asseverava che sarei riescito un buon soldato, e diceva peccato che non dimorassi in qualche paese dell'alta ove si avvezzava la gioventù a menar le mani, non a dar la caccia alle villane e a giocar il tresette coi preti e colle vecchie. A Martino peraltro non andavano a sangue quelle mie cavalcate. La gente del paese, benché non fosse rissosa e manesca al pari di quella del pedemonte, aveva muso franco abbastanza per imbeversi spesse volte delle sentenze di Cancelleria, e per dar la berta al cavallante che le intimava. E allora col sangue caldo di Marchetto non si sapeva cosa potesse succedere. Questi assicurava che la mia compagnia gli imponeva dei riguardi e lo impediva dall'uscire dai gangheri; io mi vantava alla mia volta che ad una evenienza gli avrei dato mano ricaricando le pistole, o menando colpi da disperato colla mia ronca; e così briciola com'era, mi sapeva male che altri ridesse di queste spampanate. Martino crollava il capo; e intendendo ben poco dei nostri ragionamenti seguitava a borbottare che non era prudenza l'esporre un ragazzo alle rappresaglie cui poteva andar incontro un cavallante, andando a levar pegni o ad affiggere bandi di dazi e di confische. Al fatto quei villani stessi che facevano sì trista figura nelle Cernide e tremavano nella cancelleria ad un'occhiata dell'officiale, sapevano poi adoperar per bene il fucile e la mannaia in casa loro o nelle campagne; e per me, se dapprincipio mi faceva meraviglia una tale sconcordanza, mi sembra ora di averne trovato la vera ragione. Noi Italiani ebbimo sempre una naturale antipatia per le burattinate; e ne ridiamo sì, assai volentieri; ma più volentieri anco ridiamo di coloro che vogliono darci ad intendere che le sono miracoli e cose da levarsi il cappello. Ora quelle masnade d'uomini, attruppati come le pecore, messi in fila a suon di bacchetta e animati col piffero, nei quali il valore è regolato da una parola tronca del comandante, le ci parvero sempre una famosa comparsa di burattini; e questo accadde, perché tali comparse furono sempre a nostro discapito e radissime volte a vantaggio. Ma stando così le cose pur troppo, l'idea di entrare in quelle comparse e di farvi la figura del bambolo ci avvilisce a segno che ogni volontà di far bene e ogni sentimento di dignità ci scappa dal corpo. Parlo, s'intende, dei tempi andati; ora la coscienza d'un gran fine può averci raccomodato l'indole in questo particolare. Ma anche adesso, filosoficamente non si avrebbe forse torto a pensare come si pensava una volta; e il torto sta in questo, che si ha sempre torto a incaparsi di restar savi e di adoperare secondo le regole di saviezza, allorché tutti gli altri son pazzi ed operano a seconda della loro pazzia. Infatti l'è cosa detta e ridetta le cento volte, provata provatissima, che petto contro petto uno de' nostri tien fronte e fa voltar le spalle a qualunque fortissimo di ogni altra nazione. Invece pur troppo non v'è nazione dalla quale con più fatica che dalla nostra si possa levare un esercito e renderlo saldo e disciplinato come è richiesto dall'arte militare moderna. Napoleone peraltro insegnò a tutti, una volta per sempre, che non fallisce a ciò il valor nazionale, sibbene la volontà e la costanza dei capi. E del resto, di tal nostra ritrosia ad abdicare dal libero arbitrio, oltre all'indole indipendente e

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