Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 193

Testo di pubblico dominio

m'era ridotto ancora modestamente tranquillamente al mio posto; e se gli altri facevano le belle cose che frullavano in capo a me, avrei giudicato comodissimo di non mi muovere. Poveri mortali, come son caduche le nostre felicità!... L'istituzione d'una diligenza tra Padova e Bologna fu che mi rovinò. Il conte Rinaldo, che non avrebbe sofferto per la sua debolezza di stomaco un viaggio per acqua fino a Ferrara o a Ravenna, approfittò con assai piacere della diligenza, mi venne tra i piedi a Bologna, eppur nessuno l'aveva chiamato; si fece condurre alla Madonna di Monte, alla Montagnola, a San Petronio, e per mercede di tutto ciò mi condusse via la Pisana sul terzo giorno. Alla vista del fratello tutta la sua compassione s'era raccesa, tutti i suoi scrupoli la punzecchiavano; e non ch'ella accondiscendesse ad un suo invito, ma fu anzi la prima a proporglisi per compagna nel ritorno. Quell'assassino non disse nulla; non rispose nemmeno ch'egli era venuto espressamente per ciò. Volle lasciarmi nella credula illusione ch'egli avesse trottato da Venezia a Bologna per la curiosità di veder San Petronio. Ma io gli avea letto negli occhi fin dal primo sguardo; e mi arrabbiai di vederlo riescire nel suo intento senza pur l'incommodo di una parola. Che dovesse esser più destro e potente in politica donnesca un topo di libreria sucido unto e cisposo, che un amante bellino giovine ed Intendente? — In certi casi sembra di sì: io rimasi a soffiare ed a mordermene le dita. Mi rimisi dunque al fatto mio, di schiena; per isvagarmi se non altro dalla noia che mi tormentava. E lavorando molto, e dimenticando il più che poteva, diventai a poco a poco un altr'uomo; sta a voi a decidere se migliore o peggiore. M'andarono svaporando dal capo i fumi della poesia; cominciai a sentir il peso dei trent'anni che già stavano per piombarmi addosso, ed a fermarmi volentieri a tavola ed a dividere l'amore che sta nell'anima da quello che solletica il corpo. Scusate; mi pare di avervi detto che mi faceva altr'uomo; ma la mia opinione si è che mi veniva facendo bestia. Per me chi perde la gioventù della mente non può che scadere dallo stato umano a qualche altra più bassa condizione animalesca. La parte di ragione che ci differenzia dai bruti non è quella che calcola il proprio utile e procaccia i commodi e fugge la fatica, ma l'altra che appoggia i proprii giudizi alle belle fantasie e alle grandi speranze dell'anima. Anche il cane sa scegliere il miglior boccone, e scavarsi il letto nella pagina prima di accovacciarvisi; se questa è ragione, date dunque ai cani la patente di uomini di proposito. Peraltro vi dirò che quella vita così miope e bracciante aveva allora una scusa; c'era una grande intelligenza che pensava per noi, e la cui volontà soperchiava tanto la volontà di tutti che con poca spesa d'idee si vedevano le gran belle opere. Adesso invece brillano le idee, ma di opere non se ne vedono né bianche né nere; tutto per quel gran malanno che chi ha capo non ha braccia; e a quel tempo invece le braccia di Napoleone s'allargavano per mezza Europa e per tutta Italia a sommoverne a risvegliarne le assopite forze vitali. Bastava ubbidire, perché una attività miracolosa si svolgesse ordinatamente dalle vecchie compagini della nazione. Non voglio far pronostici; ma se si fosse continuato così una ventina d'anni ci saremmo abituati a rivivere, e la vita intellettuale si sarebbe destata dalla materia, come nei malati che guariscono. A vedere il fervore di vita che animava allora mezzo il mondo c'era da perder la testa. La giustizia s'era impersonata una ed eguale per tutti; tutti concorrevano omai secondo la loro capacità al movimento sociale; non si intendeva, ma si faceva. S'avea voluto un esercito, e un esercito in pochi anni era sorto come per incanto. Da popolazioni sfibrate nell'ozio e viziate dal disordine si coscrivevano legioni di soldati sobri ubbidienti valorosi. La forza comandava il rinnovamento dei costumi; e tutto si otteneva coll'ordine colla disciplina. La prima volta ch'io vidi schierati in piazza i coscritti del mio Dipartimento credetti avere le traveggole; non credeva si potesse giungere a tanto, e che così si potessero mansuefare con una legge quei volghi rustici quelle plebi cittadine che s'armavano infino allora soltanto per batter la campagna e svaligiare i passeggieri. Da questi principii m'aspettava miracoli e persuaso d'essere in buone mani non cercai più dove si correva per ammirare il modo. Vedere quandocchesia la mia Venezia armata di forza propria, e assennata dalla nuova esperienza riprendere il suo posto fra le genti italiche al gran consesso dei popoli, era il mio voto la fede di tutti i giorni. Il pacificatore della Rivoluzione metteva anche questa nel novero delle sue imprese future; credeva riconoscerne i segnali in quel nuovo battesimo dato alla Repubblica Cisalpina che presagiva nuovi ed altissimi destini. Quando Lucilio mi scriveva che s'andava di male in peggio, che abdicando dall'intelligenza sperava in un liberatore e avremmo trovato un padrone, io mi faceva beffe delle sue paure; gli dava fra me del pazzo e dell'ingrato, gettava la sua lettera sul fuoco e tornava agli affari della mia intendenza. Credo che mi felicitassi perfino dell'assenza della Pisana, perché la solitudine e la quiete mi lasciavano miglior agio al lavoro e alla speranza con ciò di farmi un merito e di avvantaggiarmi. — Viva il signor Ludro!... — Così vissi quei non pochi mesi tutto impiegato tutto lavoro tutto fiducia senza pensare da me, senza guardar fuori dal quadro che mi si poneva dinanzi agli occhi. Capisco ora che quella non è vita propria a svegliare le nostre facoltà, e a invigorire le forze dell'anima; si cessa di esser uomini per diventar carrucole. E si sa poi cosa restano le carrucole se si dimentica di ungerle al primo del mese. Fu sventura o fortuna? — Non so: ma la proclamazione dell'Impero Francese mi snebbiò un poco gli occhi. Mi guardai attorno e conobbi che non era più padrone di me; che l'opera mia giovava ingranata in quelle altre opere che mi si svolgevano sotto e sopra a suon di tamburo. Uscir di là, guai; era un rimaner zero. Se tutti erano nel mio caso, come avea ragione di dubitarne, le paure di Lucilio non andavano troppo lontane dal vero. Cominciai un severo esame di coscienza; a riandare la mia vita passata e a vedere come la presente le corrispondeva. Trovai una diversità, una contraddizione che mi spaventava. Non erano più le stesse massime le stesse lusinghe che dirigevano le mie azioni; prima era un operaio povero affaticato ma intelligente e libero, allora era un coso di legno ben inverniciato ben accarezzato perché mi curvassi metodicamente e stupidamente a parar innanzi una macchina. Pure volli star saldo per non precipitare un giudizio, certo oggimai che non sarei sceso un passo più giù in quella scala di servilità. Quando arrivò la notizia del mutamento della Repubblica in un Regno d'Italia, presi le poche robe, i pochi scudi che aveva, andai difilato a Milano, e diedi la mia dimissione. Trovai altri quattro o cinque colleghi venuti per l'egual bisogna e ognuno credeva trovarne un centinaio a fare il bel colpo. Ci ringraziarono tanto, ci risero in grugno, e notarono i nostri nomi sopra un libraccio che non era una buona raccomandazione pel futuro. Napoleone capitò a Milano e si pose in capo la Corona Ferrea dicendo: — Dio me l'ha data, guai a chi la tocca! — Io mi assettai povero privato nelle antiche camerucce di Porta Romana dicendo a mia volta: — Dio mi ha dato una coscienza, nessuno la comprerà! — Ora i nemici di Napoleone trovarono ardimento e forza bastante a toccare e togliergli del capo quella fatale corona; ma né la California né l'Australia scavarono finora oro bastante per pagare la mia coscienza. — In quella circostanza io fui il più vero e il più forte. CAPITOLO DECIMONONO Come i mugnai e le contesse mi proteggessero nel 1805. Io perdono alcuno de'

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Argomenti: vita intellettuale,    libreria sucido,    grande intelligenza,    nuovo battesimo,    severo esame

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