Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 141

Testo di pubblico dominio

o consolarlo di quel postumo insulto. Raimondo alle prime non ci capì nulla, balbettò non so quali parole di gondola e di Fusina, e si affrettava ad andarsene. Seppi in seguito che egli aveva mandato Leopardo a Fusina coll'ordine di fermarvisi tutto il giorno appresso ad aspettar suo padre che doveva arrivare colà e di consegnargli un piego rilevantissimo. Leopardo era partito infatti sull'Avemaria, ma accortosi a mezzo il viaggio d'aver dimenticato la lettera, era tornato per prenderla verso le tre ore di notte. Allora avea veduto Raimondo entrar furtivo in sua casa e nella stanza della Doretta; il resto ognuno se lo può immaginare. È vero peraltro che il sublimato egli lo avea provveduto presso uno speziale fin dalla mattina, dopo aver assistito all'adunanza dei Municipali nella quale il Villetard avea pronunciato sentenza di morte contro Venezia. Sembra che l'ultimo vitupero dell'onor suo non abbia fatto altro che precipitare una deliberazione già maturata e presa per molti motivi. La lettera diretta al Venchieredo e di pugno del padre Pendola fu trovata nel cassetto della tavola dinanzi a lui. Tuttociò io non sapeva allora, ma indovinai qualche cosa di simile. Laonde non soffersi che Raimondo si salvasse a quel modo senza conoscer almeno l'orrenda tragedia di cui egli era la causa. Gli corsi dietro fin sulla soglia, lo abbrancai per le spalle, e lo trassi genuflesso e tremante dinanzi il cadavere di Leopardo. — Guarda — gli dissi — traditore! Guarda!... Egli guardò spaventato e s'accorse solamente allora della lividezza mortale che copriva quelle spoglie inanimate. Accorgersene, e metter un grido più acuto più straziante del mio, e cader riverso come colpito dal fulmine fu tutto ad un punto. Quel secondo grido chiamò nella stanza la portinaia, la Doretta e quanta gente abitava la casa. Raimondo s'era riavuto ma si reggeva in piedi a stento, la Doretta si strappava i capelli, e non so ben dire se strillasse o piangesse; gli altri guardavano spaventati quel lugubre spettacolo, e si chiedevano l'un l'altro sotto voce com'era stato. Mentire toccò a me, e non mi fu grave, perché pensava così di adempiere scrupolosamente i desiderii dell'amico. Ma non potei far a meno che nell'ascrivere quella morte ad un colpo fulminante la mia voce non parlasse altrimenti. Raimondo e la Doretta mi intesero, e sopportarono dinanzi al mio sguardo inesorabile la vergogna dei rei. Io partii da quella casa, ove divisava di tornare il giorno appresso per accompagnare l'amico alla sua ultima dimora; qual fosse l'animo, quali i miei pensieri non voglio confessarlo ora. Guardava talvolta con inesprimibile avidità l'acqua torbida e profonda dei canali; ma mio padre mi aspettava ed altri martiri mi invitavano per la via di Milano alle dure espiazioni dell'esiglio. Mio padre m'attendeva infatti da un'ora e si spazientiva di non vedermi tornare. Mi scusai raccontandogli l'atrocissimo caso, ed egli mi tagliò le parole in bocca sclamando: — Matto, matto! La vita è un tesoro; bisogna impiegarlo bene sino all'ultimo soldo! — Rimasi nauseato alquanto di una tale pacatezza, e non ebbi voglia alcuna di farmi incontro ai suoi desiderii, come me ne aveano persuaso la sera prima le monche confidenze di Lucilio. Egli invece senzaché io m'incommodassi entrò subito in argomento. — Carlino — mi chiese — dimmi la verità, quanti danari all'anno ti bisognano per vivere? — Son nato con un buon paio di braccia; — gli risposi freddamente — mi aiuterò!... — Matto, matto anche tu! — rispose egli — anch'io son nato colle braccia e le ho fatte lavorare a meraviglia; ma perciò non rifiutai mai un buon aiuto dell'amicizia. Pigliala come vuoi, io sono tuo padre; e ho diritto di consigliarti e al caso anche di comandarti. Non guardarmi così altero!... Non ci è bisogno!... Ti compatisco; sei giovane, hai perduto la testa. Anch'io stetti tutto ieri che non sapeva se fossi vivo o morto, anch'io ho sofferto, vedi, più di uomo al mondo vedendo rovesciarsi tutte le mie speranze per opera di quelli stessi cui le aveva affidate da compiere! Anch'io ho pianto, sì ho pianto di rabbia trovandomi schernito beffeggiato e pagato di sette anni di servizi e di sacrifizi coll'ingratitudine e col tradimento... Ma oggi; oggi me ne rido!... Ho un gran pensiero in capo; questo mi occuperà per mesi forse, per anni molti; spero di riuscir meglio che al primo esperimento e ci rivedremo. Un uomo, vedi, è un assai debole animale, un futuro parente del nulla; ma non è nulla!... e finché non è nulla può essere il primo anello d'una catena da cui dipenda il tutto... Bada a me, Carlino!... Io son tuo padre, io ti stimo e ti voglio bene assai; tu devi accettare i consigli della mia esperienza; devi serbarti per quel futuro che io m'adoprerò di preparare a te ed alla patria. Pensa che non sei solo, che hai amici e parenti profughi, impotenti, bisognosi; ti sarà gradito talvolta aver un pane da spartir con loro. Qui in questo taccuino sono parecchi milioni ch'io consacro ad un grande tentativo di giustizia e di vendetta; erano destinati a te, ora non lo sono più. Vedi che parlo aperto e sincero!... Usami dunque l'egual confidenza, dimmi quanto ti bisogna per vivere un anno comodamente. Io mi piegai sotto la stringente logica paterna e soggiunsi che trecento ducati mi sarebbero stati più che sufficienti. — Bravo, figliuol mio! — ripigliò mio padre. — Sei un gran galantuomo. Eccoti una credenziale appunto di settemila ducati sopra la casa Apostulos in San Zaccaria; la quale tu consegnerai oggi stesso al rappresentante della casa. Troverai ottima gente, generosa e leale: un vecchio ch'è la perla dei mercanti onesti e che sarà per te un altro me stesso: un giovine appena reduce dalla Grecia che ne compera venti dei nostri veneziani; una giovinetta che tu amerai come una sorella; una mamma che ti amerà come mamma. Fidati ad essi: per mezzo loro avrai mie novelle poiché conto imbarcarmi prima di mezzodì, e non voglio vedere le nefandità di questo giorno. La casa ch'io comperai per duemila ducati ti resta in proprietà; ne ho già steso la donazione. Nello scrittoio troverai alcune carte che appartenevano a tua madre. Sono la sua eredità e la viene a te di diritto. Quanto alla tua sorte futura non ti do consigli, perché non ne abbisogni. Altri s'affida ancora alle speranze francesi ed emigra nella Cisalpina. Guarda il fatto tuo; e pensa sempre a Venezia; non lasciarti abbagliare né da fortuna né da ricchezze né da gloria. La gloria c'è quando si ha una patria; stima la fortuna e le ricchezze quando siano assicurate dalla libertà e dalla giustizia. — Non temete, padre mio — soggiunsi piuttosto commosso da queste raccomandazioni che per essere espresse a sbalzi e con un gergo più moresco che veneziano non erano meno generose. — Penserò sempre a Venezia!... Ma perché non potrei partire con voi, ed esser partecipe dei vostri disegni, compagno delle vostre fatiche? — Ti dirò, figliuol mio: tu non sei abbastanza turco per approvare tutti i miei mezzi; io sono come un chirurgo che mentre opera non vuole intorno a sé donnicciuole che frignino. Non dico per insultarti; ma te lo ripeto, non sei abbastanza turco: questo può ridondare ad onor tuo; per me ci perderei la libertà d'azione che sola dà fretta alle cose di questo mondo. E un uomo di sessant'anni, Carlino, ha fretta ha fretta assai! D'altronde in questi paesi non c'è abbondanza di giovani robusti e ben pensanti come tu sei: va bene che restiate qui, se si ha da imparare a far da noi. Già in un cantone o nell'altro la matassa si deve imbrogliare. Ad Ancona, a Napoli, bollono che è una meraviglia: quando l'incendio si fosse dilatato, chi lo appiccò potrebbe restarne arso; allora toccherà a voi, cioè a noi. Per questo ti dico di rimanere, e di lasciar me solo dove la vecchiaia può riescire meglio della gioventù, ed il danaro aver ragione sopra le forze del corpo e la gagliardia dell'animo.

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Argomenti: tre ore,    lividezza mortale,    secondo grido,    sguardo inesorabile,    inesprimibile avidità

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