Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 22

Testo di pubblico dominio

uccellini in gabbia, era per liberarli al venir della primavera; e talvolta s'addomesticava tanto con quei vezzosi gorgheggiatori che le doleva il cuore nel separarsene. Ma cos'era mai per Clara il proprio rammarico quando ne andava di mezzo il bene d'un altro? Apriva lo sportello della gabbia con un sorriso fatto più bello da due lagrime; e talvolta gli uccelletti venivano a becchettarle le dita prima di volar via; e restavano anche per qualche giorno nelle vicinanze del castello visitando con sicurezza la finestra ove avean vissuto la mala stagione prigionieri e felici. Clara li riconosceva; e sapeva loro grado dell'affettuosa ricordanza che le serbavano. Allora pensava che le cose di questo mondo son buone; e che gli uomini non potevano esser cattivi, se tanto grati ed amorosi le si mostravano i cardellini o le cinciallegre. La nonna sorrideva dalla sua poltrona vedendo le tenere e commoventi fanciullaggini della nipote. E si guardava bene dal deriderla, perché sapeva per esperienza, la buona vecchia, che l'abitudine di quei dilicati sentimenti fanciulleschi prepara per le altre età un'inesausta sorgente di gioie modeste, ma purissime e non caduche né invidiate. Nei tre anni che dimorò nel convento delle Salesiane di San Vito, la fanciulla fu beffeggiata abbastanza per queste sue moine: ma ella ebbe il buon cuore di non vergognarsene, e la costanza di non rinnegarle. Laonde quando uscì a riprendere presso il letto della nonna il suo uffizio d'infermiera, la trovarono ancora la stessa Clara semplice modesta servizievole facile al riso ed alle lagrime per qualunque gioia e per qualunque cruccio che non fosse suo proprio. La Contessa, trapiantandosi da Venezia a Fratta, trovatala un po' salvatica, avea inteso dirozzarla coi soliti dieci anni di monastero; ma dopo un triennio cominciò a dire che la Clara essendo d'indole svegliata doveva averne avuto abbastanza. Il vero si era, che la cura della suocera le pesava troppo, e per non sacrificare a ciò tutto l'anno una donna di servizio le parve un doppio sparagno quello di riprender in casa la figlia. D'altra parte i suoi sfoggi di Venezia aveano sbilanciato alquanto la famiglia, ed essendosi allora in pensiero di provvedere all'educazione del figliuol maschio, si volle stringer un po' la mano nella spesa per le femmine. Le erano già due, perché la Contessa portava in grembo la Pisana, quando deliberò di levar dalle monache la Clara, e non dubitava nemmeno di esser per partorire una bambina alla quale aveva già scelto fin d'allora il nome, in ossequio della madre sua ch'era stata una Pisani. Così eran ite le cose mentr'io poppava e trangugiava pappa in tutte le case di Fratta; ma quando fui sui nove anni, e la Pisana ne aveva sette e il contino Rinaldo forniva la Rettorica presso i reverendi padri Somaschi, la contessina Clara era già cresciuta a perfetta avvenenza di giovane. Credo la toccasse allora i diciannove anni, benché non li mostrava per quella sua delicatezza di tinte che le serbò sempre le apparenze della gioventù. La sua mente si era arricchita di buone cognizioni pei libri ch'era venuta leggendo, e d'ottimi pensieri pel tranquillo svilupparsi d'un'indole pietosa e meditativa; la sensibilità le si esercitava più utilmente nei soccorsi che distribuiva alle povere donne del paese, senza aver nulla perduto della sua grazia infantile. Amava ancora gli augelletti ed i fiori, ma vi pensava meno, allora che il tempo le era tolto da cure più rilevanti; e del resto la sua serenità durava ancora la stessa, fatta ancora più incantevole dalla coscienza che la irraggiava d'una sicurezza celeste. Quando dopo aver aiutato la nonna a spogliarsi ella entrava nel tinello, e sedeva vicino al tavolino ove giocava sua madre, col suo ricamo bianco in una mano e l'ago nell'altra, la sua presenza attirava tutti gli sguardi e bastava a raggentilire per un quarto d'ora la voce ed i discorsi dei giocatori. La Contessa, che aveva sufficiente avvedutezza, notava questo effetto ottenuto dalla figlia e n'era anche discretamente gelosa; colla sua cuffia di merlo e con tutta la boria di casa Navagero scolpita sulla fisonomia, ella non aveva mai ottenuto altrettanto. Perciò se dapprima la si sforzava di moderare la loquacità soventi volte sussurrona e villanesca della compagnia, in quel momento di tregua la s'indispettiva di non udirla continuare, ed era ella la prima a stuzzicare il Capitano o l'Andreini perché ne dicessero delle loro. Il signor Conte gongolava, vedendo la moglie prender piacere alla conversazione del castello; e Monsignore sbirciava la cognata di traverso non comprendendo da cosa derivassero que' suoi accessi affatto insoliti e un po' anche stizzosi di affabilità. Io era piccino allora, eppur dal buco della serratura donde rimaneva qualche tratto spettatore del gioco, comprendeva benissimo la stizza o il buon umore della Contessa; lo comprendeva anche la Clara; perché mi ricordo ancora che se il Capitano o l'Andreini rispondevano di malgarbo agli inviti dell'illustrissima padrona, un lieve rossore le coloriva le tempie. Mi par ancora di vederla, quell'angelo di donzella, raddoppiar allora di attenzione sul suo ricamo, e per la fretta imbrogliarsi le dita nel filo. Son poi sicuro che quel rossore proveniva piucché altro dal timore che non fosse di pretta superbia il pensiero che in quei momenti le attraversava la mente. Ma Monsignore come avrebbe potuto capire o sospettar tutto ciò? Lo ripeto. Io aveva nove anni ed egli sessanta sonati; egli canonico in sarrocchino e in calze rosse, io quasi trovatello scamiciato e senza scarpe; e con tutto questo, ad onta che egli si chiamasse Orlando ed io Carlino, io di mondo e di morale me n'intendeva più di lui. L'era il teologo più semplice del clero cattolico; ne metto la mano sul fuoco. Intorno a quel tempo le visite al castello di Fratta, massime dei giovani di Portogruaro e del territorio, si facevano più frequenti. Non l'era più questo un privilegio delle domeniche o delle sere delle vendemmie, ma tutto l'anno, anche nel verno più crudo e nevoso, capitava a piedi o a cavallo, coll'archibugio in ispalla e il fanaletto appeso in punta, qualche coraggioso visitatore. Non so se la Contessa si attribuisse l'onore di attirar quelle visite; certo si dava molto attorno per far la vispa e la graziosa. Ma in onta alle attrattive della sua età rispettabile e più che matura gli occhi di quei signorini erano molto svagati finché non capitasse a concentrarli in sé il visetto geniale della Clara. Il Vianello di Fossalta come il più vicino era anche il più assiduo; ma anche il Partistagno non gli cedeva di molto benché il suo castello di Lugugnana fosse sulla marina ai confini della pineta, un sette miglia buone lontano da Fratta. Questa lontananza forse gli dava il diritto di anticipar le sue visite; e molte volte si combinava ch'egli capitasse proprio nel punto che la Clara usciva per incontrare la mamma nella passeggiata. Allora voleva la convenienza ch'egli le fosse compagno, e Clara vi accondiscendeva cortesemente benché i modi aspri e risoluti del giovane cavaliere non s'attagliassero molto a' suoi gusti. Quando finiva il gioco, la Contessa non mancava mai d'invitar il Partistagno a fermarsi a Fratta la notte, lamentando sempre la perfidia l'oscurità e la lunghezza della strada; ma egli si scansava con un grazie, e buttata a Clara un'occhiatina che era rade volte e solo per caso corrisposta, andava nella scuderia a farsi insellare il suo saldo corridore furlano. S'imbacuccava ben bene nel ferraiuolo, imbracciava la coreggia del moschetto coll'indispensabile fanale sulla cima, e balzato in arcione usciva di gran trotto dal ponte levatoio assicurandosi colla mano se nelle fonde laterali v'erano ancora le pistole. Così passava via come un fantasma per quelle stradaccie tenebrose e infossate, ma le più volte si fermava a dormire a San Mauro, due miglia discosto, dove sopra un suo podere s'avea accomodate per maggior comodo quattro

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Argomenti: ponte levatoio,    giovane cavaliere,    doppio sparagno,    ricamo bianco,    lieve rossore

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