Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 4

Testo di pubblico dominio

donneggiare col rosario! — sclamò il vecchio pavonazzo dalla bile. — Sì! ci voleva anche questa bestemmia! — riprese pazientemente la Contessa. — Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni! — Bei doni, bei doni! — mormorava il Conte. — Un santoccio leccone!... un mezzo volpatto e mezzo coniglio! — Infine egli non ha detto questa gran bestialità; — soggiunse la signora — ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine. — Corpo della Serenissima! — gridò il Conte. — Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava le Termopili con trecento boccali di vino! — S'anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico — riprese la Contessa. — Come? — urlò il vecchio signore — arrivate persino a negare l'eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane? — Via! stiamo nel seminato! — disse chetamente la donna — io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra queste rancide fole. — Donne, donne!... nate per educar i polli — borbottava il Conte. — Marito mio! sono una Badoera! — disse drizzandosi la Contessa. — Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono più numerosi che nella vostra i capponi. Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all'occhiata severa ch'ella gli volse. — Vedete? — continuò parlando al marito — finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po' da banda i vostri capricci, giacché Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l'animo di questo fanciullo. Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sì brutto ch'egli se ne sgomentì e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno. — Dunque — cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile. — Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d'oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni alti quattro braccia l'uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre dei Turchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca? — Voglio cantar messa io! — piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnucolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltò a vedere cos'era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe più ritegno alla stizza, e diventò rosso più ancor di vergogna che di collera. — Va' dunque in seminario, bastardo! — gridò egli fuggendo fuori della stanza. Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsi i capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli: — Sì, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue de' tuoi fratelli come Caino!... — Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo! — strepitava Orlando. — Sì... canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre più degni di lui — gli andava dicendo la mamma. Il fanciullo si consolò a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo e a dispetto della contrarietà paterna, era divenuto monsignor Orlando. Ma per quanto la Curia fosse disposta a favorire la divota ambizione della Contessa, siccome Orlando non era un'aquila, così non ci vollero meno di dodici anni di seminario e d'altri trenta di postulazione per fargli toccare la meta de' suoi desiderii; e il Conte ebbe la gloria di morire molti anni prima che i fiocchi rossi gli piovessero sul cappello. Peraltro non si può dire che l'abate perdesse alla lettera tutto quel tempo di aspettativa. Prima di tutto ci aveva preso intanto una discreta pratica del messale; e poi la gorgiera gli si era moltiplicata a segno da poter reggere a paragone col più morbido e fiorito de' suoi nuovi colleghi. Un castello che chiudeva fra le sue mura due dignità forensi e clericali come il Cancelliere e monsignor Orlando, non dovea mancare della sua celebrità militare. Il capitano Sandracca voleva essere uno schiavone ad ogni costo, sebbene lo dicessero nato a Ponte di Piave. Certo era l'uomo più lungo della giurisdizione; e le dee della grazia e della bellezza non aveano presieduto alla sua nascita. Ma egli perdeva tuttavia una buona ora ogni giorno a farsi brutto tre volte più che non lo avesse fatto natura; e studiava sempre allo specchio qualche foggia di guardatura e qualche nuovo arricciamento di baffi che gli rendesse il cipiglio più formidabile. A udirlo lui, quando avea vuotato il quarto bicchiere, non era stata guerra dall'assedio di Troia fino a quello di Belgrado dove non avesse combattuto come un leone. Ma sfreddati i fumi del vino, si riduceva colle sue pretese a più oneste proporzioni. S'accontentava di raccontare come avesse toccato dodici ferite alla guerra di Candia; offrendosi ogni volta di calar le brache per farle contare. E Dio sa com'erano queste ferite, poiché ora, ripensandoci sopra, non mi par verosimile che coi cinquant'anni che diceva toccare appena, egli avesse assistito ad una guerra combattutasi sessant'anni prima. Forse la memoria lo tradiva, e gli faceva creder sue le gesta di qualche spaccone udite raccontare dai novellatori di piazza San Marco. Il buon Capitano confondeva assai facilmente le date; ma non dimenticava mai ogni primo del mese di farsi pagar dal fattore venti ducati di salario come comandante delle Cernide. Quel giorno era la sua festa. Mandava fuori all'alba due tamburi i quali fino a mezzogiorno strepitavano ai quattro cantoni della giurisdizione. Poi nel dopopranzo quando la milizia era raccolta nel cortile del castello, usciva dalla sua stanza così brutto che quasi solamente colla presenza sbaragliava il proprio esercito. Impugnava uno spadone così lungo che bastava a regolar il passo d'un'intera colonna. E siccome al minimo sbaglio egli usava batterlo spietatamente su tutte le pancie della prima fila; così quando appena accennasse di sbassarlo, la prima fila indietreggiava sulla seconda la seconda sulla terza e nasceva una tal confusione che la minore non sarebbe avvenuta all'avvicinarsi dei Turchi. Il Capitano sorrideva di contentezza, e rassicurava la truppa rialzando la spada. Allora quei venti o trenta contadini cenciosi coi loro schioppi attraversati sulle spalle come badili, riprendevano la marcia a suon di tamburo verso il piazzale della parrocchia. Ma siccome il Capitano camminava dinanzi con le gambe più lunghe della compagnia, così per quanto questa si affrettasse egli giungeva sempre solo sul piazzale. Allora si rivolgeva infuriato a tempestare col suo spadone contro quella marmaglia indolente: ma nessuno era così gonzo da aspettarlo. Alcuni se la davano a gambe, altri saltavano i fossati, altri sguisciavano dentro le porte e si ascondevano sui fienili. I tamburi si difendevano coi loro strumenti. E così finiva quasi sempre nella giurisdizione di

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Argomenti: vecchio signore,    piazza san,    mura due,    due dignità,    nuovo arricciamento

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