Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 165

Testo di pubblico dominio

romanziere francese inteso a comporre un'epopea. Le sue azioni le sue parole s'avvicendavano si ritiravano si scavalcavano a fatti a contrapposti a sorprese come le strofe di un'ode di Pindaro mal raffazzonate dagli scoliasti. Ci sognai dietro tutta notte, la osservai buona parte del mattino, e uscii colla lettera per la Pisana in tasca senza essermi avvantaggiato di nulla. Dentro ne inclusi una per l'Apostulos ove gli significava tutta la condotta dell'Aglaura, mettendomi ai suoi comandi in quanto poteva concernerla; lo pregava anche di prestarsi in quanto abbisognasse alla Pisana come per un altro me stesso. S'intende ch'io misi il tutto alla posta senza nulla dire alla giovine, perché lì era in ballo la mia coscienza e non si volean cerimonie. Far da papà sì, ma non da birbone per amor suo. Sul mezzogiorno mi abboccai con Lucilio al caffè del Duomo che a que' tempi era il convegno di moda, e dove ci avevamo dato l'appostamento. Egli si mostrò spiacentissimo di non avermi potuto inscrivere nella Legione Cisalpina dove non c'era proprio più nessun posto vacante; ma piuttosto che lasciar ozioso un par mio, diceva egli, avrebbe cercato inspirazione dal diavolo, e poteva esser contento che gliene era saltata una di ottima. — Ora ti menerò dal tuo generale — diss'egli — generale, comandante, capitano, commilitone, tutto quello che vorrai! È uno di quegli uomini che sono troppo superiori agli altri per darsi la briga di accorgersene di mostrarlo: non si può credere ad alcun patto che in lui sia un'anima sola, e sembra che la sua immensa attività dovrebbe stancarne una dozzina al giorno. Contuttociò ammira i tranquilli e compatisce perfino gli indolenti. Sul campo io scommetto che da solo basterebbe a vincere una battaglia, purché non gli ferissero gli occhi nei quali risiede la sua potenza più straordinaria. È napoletano, e a Napoli direbbero che ha la jettatura, ovvero, come dicono nei nostri paesi, il mal'occhio; da non confondersi peraltro coll'occhio cattivo, anzi pessimo del fu cancelliere di Fratta. — E chi è questa fenice? — gli chiesi. — Lo vedrai, e se non ti va a sangue mi faccio sbattezzare. In queste parole mi tirò fuori del caffè, e giù a passo sforzato oltre al Naviglio di Porta Nuova verso i bastioni. Entrammo in una vasta casa dove il cortile era pieno affollato di cavalli di stallieri di scozzoni di selle di bardature come in una caserma di cavalleria. Per la scala era un su e giù di soldati di sergenti d'ordinanze come al palazzo del Quartier Generale. Nell'anticamera altri soldati, altre armi disposte a trofeo o gettate a fasci nei cantoni: v'avea anche ammassato in un canto un piccolo magazzino di tuniche di tracolle e di scarponi soldateschi. “Chi è?” pensava io “forseché è l'Arsenale?...” Lucilio tirava diritto senza scomporsi, come persona di casa. Infatti senza neppur farsi annunziare nell'ultima anticamera da una specie d'aiutante che stava là contando i travi, schiuse la porta ed entrò tenendomi per mano dinanzi allo strano padrone di quel ginnasio militare. Era un giovine alto, di trent'anni all'incirca, un vero tipo di venturiero, il ritratto animato d'uno di quegli Orsini, di quei Colonna, di quei Medici la cui vita fu una serie continua di battaglie, di saccheggi, di duelli, di prigionie. Si chiamava invece Ettore Carafa; nobilissimo nome fatto più illustre dall'indipendenza di chi lo portava, dal suo amore per la libertà e per la patria. Per le sue trame repubblicane aveva egli sofferto lunga carcerazione nel famoso Castel Sant'Elmo; indi fuggitone s'era ricoverato a Roma, e di là a Milano a formarvi a proprie spese una legione per liberar Napoli. Aveva uno di quegli animi che uniti o soli vogliono fare ad ogni costo; e questa magnanimità gli respirava dignitosamente nella grand'aria del viso. Soltanto tramezzo un ciglio gli calava giù una piccola cicatrice contornata da un'aureola di pallore; sembrava il segno d'una trista fatalità fra le nobili speranze d'un valoroso. Egli s'alzò dal lettuccio sul quale stava disteso, tese la mano a Lucilio e si congratulò secolui del bell'ufficiale che gli accompagnava. — Ufficiale di poco conto — gli risposi io. — La vera arte militare io non la conosco che di nome. — Avete cuore di farvi ammazzare per difendere la patria e l'onor vostro? — riprese il Carafa. — Non una ma cento vite — soggiunsi — darei per sì nobili ragioni. — Ecco amico mio; vi permetto di potervi credere fin d'ora perfetto soldato. — Soldato sì — s'intromise Lucilio — ma ufficiale?... — A questo lasciate che ci pensi io!... Sapete nulla montar a cavallo, caricare uno schioppo, e maneggiar la spada? — So qualche cosa di tuttociò (Era merito di Marchetto e ne lo ringraziai allora, come poco prima avea ringraziato il Piovano della sua classica istruzione). — Allora, eccovi anche ufficiale. In una legione come la mia che farà la guerra alla spicciolata, l'occhio e la buona volontà faranno più del sapere. Stasera tornate da me all'ora della ritirata. Vi consegnerò la vostra schiera, e state di buon animo che di qui a tre mesi avremo conquistato il Regno di Napoli. Mi pareva di udir parlare Roberto Guiscardo o qualche paladino dell'Ariosto, ma parlava sul serio e me ne accorsi poi alla prova. Stentava a dimandargli se avrei potuto dormire fuori di caserma, ma gliene chiesi alfine e mi disse sorridendo che era diritto degli ufficiali. — Capisco; — soggiunse — avete le notti impegnate con un altro colonnello. Io m'imbrogliai e non dissi di no; Lucilio sorrise anch'esso; il fatto poi stava che non poteva lasciar sola l'Aglaura, ma qual piacere ritraessi io dal farle la guardia lo sapeva il cielo. Io fui soddisfattissimo allora del signor Ettore Carafa, e meglio due tanti in seguito. Ricorderò sempre con piacere quella vita frugale operosa e soldatesca. Alla mattina gli esercizi coi miei soldati, poi il pranzo e qualche gran seduta di chiacchiere con Amilcare con Giulio con Lucilio; il dopopranzo e la sera conversazione coll'Aglaura che aspettava sempre Emilio e non voleva saperne di tornar a Venezia. Frammezzo, qualche lettera agrodolce della Pisana. Ecco come giungemmo al tempo della rivoluzione di Roma, la quale doveva dar piede alle operazioni militari del Carafa nel Regno. CAPITOLO DECIMOSESTO Nel quale si svolge il più incredibile dramma familiare che possa immaginarsi. Digressione sulle vicende di Roma, sopra Foscolo e Parini ed altri personaggi della Repubblica Cisalpina. Io guadagno una sorella, e do a Spiro Apostulos una sposa. Mantova, Firenze e Roma. Avvisaglie al confine napoletano. La ninfa Egeria di Ettore Carafa. Una scommessa mi fa riguadagnar la Pisana; ma alle prime non ne son molto lusingato. Il dì quindici febbraio 1798 cinque notai in Campo Vaccino avevano rogato l'atto di libertà del popolo romano. Assisteva liberatore quel Berthier che aveva assistito traditore al congresso di Bassano per la conservazione della Repubblica Veneta. Il Papa stava chiuso nel Vaticano fra svizzeri e preti; e negando egli di svestirsi dell'autorità temporale fu levato di Roma militarmente e condotto in Toscana. Unico esempio di inflessibilità italiana in quel tempo di continui mutamenti, di sùbite paure; e fu in Pio VI. Per quanto poco cristiano mi fossi, ricordo che ammirai la costanza del gran vecchio, e comparandola alla tremula debolezza del doge Manin, faceva doloroso raffronto fra quei due più antichi governi d'Italia. Roma, già consumata dal trattato di Tolentino, fu del tutto spogliata per la presenza dei repubblicani; l'uccisione del general Duphot, pretesto alla guerra, fu suffragata con esequie, con luminarie e colla spogliazione di tutte le chiese. Casse gravi di pietre preziose s'incamminavano per Francia, mentre l'esercito restava stremo di tutto e tumultuava contro Massena succeduto a Berthier. Le campagne insorgevano ed erano piene d'assassinii; cominciava insomma uno di quei drammi sociali rimasti

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Argomenti: romanziere francese,    piccolo magazzino,    strano padrone,    arte militare,    cento vite

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