Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 156

Testo di pubblico dominio

ricordandomi quasi più dove mi fossi, e non conoscendo quell'argine del canale ove tante volte avea passeggiato con Amilcare. Domandai pertanto d'un'osteria, e me ne fu additata una alla destra di Porta Codalunga, ove appunto pochi anni or sono fu costruito il gazometro. Mi vi avviai col mio fardello sotto il braccio, seguitato da alcuni birichini che ammiravano il mio vestimento orientale: entratovi chiesi una stanza, e qualche cosa da ristorarmi. Là mi cangiai di abito, presi un po' di cibo, non volli saperne di vino, e pagato il piccolo scotto, uscii dalla bettola dicendo a voce alta che vestito a quel modo sperava di non dar nell'occhio ai monelli della città. Infatti feci le viste di avviarmivi; ma giunto alla porta tirai oltre e la diedi giù per un viottolo che a mia memoria doveva riuscire sulla strada di Vicenza. Uscendo dall'osteria avea sbirciato un tale che aveva muso di tenermi dietro avvisatamente; e voleva chiarirmi della verità. Infatti guardando di traverso io vedeva sempre quest'ombra che seguitava la mia, che allentava sollecitava e fermava il passo con me. Svoltato giù per quel viottolo udiva del pari un passo leggiero e prudente che mi accompagnava; sicché non v'aveva più dubbio, quel cotale era lì proprio per me. Pensai subito al Venchieredo, al padre Pendola, all'avvocato Ormenta e ai loro spioni: allora non sapeva che il degno avvocato sedeva al governo per la accorta protezione del reverendo. Tuttavia mi parve che la franchezza fosse il miglior partito e quando ebbi tirato il mio cagnotto da ferma nell'aperta campagna mi volsi precipitosamente, e mi slanciai sopra di lui per ghermirlo, se si poteva, e pagarlo con doppia moneta della non chiesta compagnia. Con mia gran sorpresa colui né si mosse né diede segno di spavento; anzi aveva intorno un cappotto da marinaio e ne abbassò il cappuccio per discoprirsi meglio. Io allora deposi anch'io la parte più pericolosa della mia rabbia, e mi accontentai di tenergli ricordato che non era lecito starsi a quel modo sulle calcagna d'un galantuomo. Mentre io gli parlava ed egli mi guardava con un cipiglio piuttosto indeciso e turbato, mi parve di travedere nelle sue sembianze la memoria d'una persona a me notissima. Passai rapidamente in rassegna tutti i miei amici di Padova; ma nessuno gli somigliava per nulla, invece un certo presentimento si ostinava a presentarmi quella figura come veduta poco tempo prima, e viva ancora, vivissima nelle mie rimembranze. — Dunque non vuol proprio conoscermi? — mi disse colui mettendosi la palma della mano sul volto, e con tal voce che mi rischiarò subito il discernimento. — Aglaura, Aglaura! — io sclamai. — Vedo o stravedo? — Sì, sono Aglaura, son io che vi seguo fino da Venezia, che stetti con voi nella medesima barca, che mi refocillai alla stessa osteria, e che non avrei avuto il coraggio di scoprirmi a voi se i vostri sospetti non vi facevano rivolgere a me. — Adunque — io soggiunsi fuori di me per la sorpresa — adunque Spiro cercava di voi questa mattina?... — Sì, egli cercava di me. Rientrando a casa e non trovandomi più perché io era venuta intanto alla corriera dopo avermi cangiati gli abiti presso la nostra lavandaia, egli si sarà insospettito di quanto già temeva da lungo tempo. È vero ch'era uscita colla cameriera; ma costei sarà tornata narrando com'io l'avea pregata di lasciarmi sola in chiesa e i sospetti gli saranno cresciuti. Fortuna che per la fretta non ebbe tempo di chiarirsi se quella fosse la verità od una scusa; e così quando domandò al padrone se non aveva donne a bordo e colui gli rispose di no, credette davvero ch'io fossi rimasta a pregare, e cercassi forse nella preghiera la forza di resistere alle tentazioni che da tanto tempo mi assediavano. Povero Spiro!... Egli mi vuole bene, ma non m'intende, non mi compatisce!... Anziché intercedere per me egli sarà quello che si farà esecutore delle maledizioni di mio padre!... Da queste parole dal suono della voce dal tenor degli sguardi io mi persuasi che la povera Aglaura era innamorata di me, e che il dolore di perdermi l'avea menata a quel consiglio disperato di seguirmi. Io mi sentiva pieno di riconoscenza di compassione per lei. Se la Pisana fosse rimasta con Sua Eccellenza Navagero, o fosse scappata col tenente Minato, credo che avrei amato di colpo l'Aglaura non foss'altro per riconoscenza. Ma sono stanco di scrivere, e voglio chiudere il capitolo lasciandovi nell'incertezza di quello che ne avvenne poi. CAPITOLO DECIMOQUINTO Il viaggio può esser buono benché fu cattiva la partenza. Arriviamo a Milano il giorno della Festa per la Federazione della Repubblica Cisalpina. Io comincio a veder chiaro, ma forse anche a sperar troppo nelle cose di questo mondo. I soldati cisalpini e la Legione Partenopea di Ettore Carafa. Di punto in bianco divento ufficiale di questa. Perdonatemi la mala creanza d'avervi impiantati così sgarbatamente; ma non ce n'ho colpa. La vita d'un uomo raccontata così alla buona non porge motivo alcuno ond'essere spartita a disegno, e per questo io ho preso l'usanza di scrivere ogni giorno un capitolo terminandolo appunto quando il sonno mi fa cascare la penna. Ieri sera ne fui colto quando più mi facean d'uopo tutti i miei sentimenti chiari e svegliati per continuare il racconto, e così ho creduto di far bene sospendendolo fino ad oggi. Già non ne aveste altro incommodo che di dover voltare una pagina e leggere quattro righe di più. La giovine greca nelle sue spoglie marinaresche era bella come una pittura del Giorgione. Aveva un certo miscuglio di robusto e di molle, d'arditezza e di modestia che un romito della Tebaide se ne sarebbe innamorato. Però io non mi lasciai vincere da questi pregi incantevoli; e con uno sforzo supremo m'apprestava a farla capace del suo strambo operare, a rammemorarla de' suoi genitori, di suo fratello, dei suoi doveri di morale e di religione, a persuaderla fors'anco che il suo non era amore ma momentanea frenesia che in due giorni si sarebbe sfreddata, a protestarle di più schiettamente se n'era il bisogno, che il mio cuore era già preoccupato e che sarebbe stato inutile ogni sforzo per conquistarlo. A tanto giungeva il mio eroismo. Fortuna che non fu di mestieri; e che la sincerità della donzella mi sparagnò la ridicolaggine donchisciottesca d'una battaglia contro un mulino. — Non condannatemi! — riprese ella dopo aver parlato come esposi in addietro, e imponendomi silenzio d'un gesto — prima dovete ascoltarmi!... Emilio è il mio promesso sposo; egli non pensava certamente a mescolarsi in brighe di Stato, in macchinazioni e in congiure quando lo conobbi; fui io a spingerlo per quella via, e a procurargli la proscrizione che nudo di tutto, senza parenti senza amici e cagionevole di salute lo manda a soffrire, a morir forse in un paese lontano e straniero!... Giudicatemi ora; non era dover mio quello di tutto abbandonare, di sacrificar tutto per menomare i cattivi effetti delle mie esortazioni?... Lo vedete bene: Spiro avea torto nel volermi trattenere. Non è l'amore soltanto che mi fa fuggire la mia casa; è la pietà, la religione, il dovere!... Perisca tutto, ma che non mi resti nel cuore un sì atroce rimorso! Io rimasi, come si dice, di princisbecco; ma feci dignitosamente l'indiano e benché la vergogna mi salisse alle guance del granchio ch'era stato per prendere, pure trovai qualche parola che non dicesse nulla, e velasse momentaneamente il mio imbroglio. Soprattutto mi imbarazzava quel signor Emilio, nudo di tutto, malato, interessante che l'Aglaura diceva essere il suo promesso sposo e del quale io non avea mai sentito mover parola dai suoi. Probabilmente ella supponeva che Spiro me ne avesse parlato, infatti ella tirò innanzi a raccontare come se ne sapessi quanto lei. — La settimana passata — diss'ella — era assalita continuamente dall'idea di ammazzarmi: ma quando prima vidi voi, e sentii che avevate intenzione d'andare a Milano, un altro

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