Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 54

Testo di pubblico dominio

resistere ancora, ma la Clara lo pregò sommessamente di cessare; ed egli s'accontentò di tornar indietro con lei minacciando i due sgherani e il loro padrone di tutte le ire del Luogotenente e della Serenissima Signoria, che egli ben sapeva quanto poco valessero. — Tacete! già sarebbe inutile — gli veniva bisbigliando all'orecchio la Clara traendolo lunge da quei due sgherri. — Mi dispiace che è notte fatta e a casa saranno inquieti per me; ma con un piccolo giro potremo entrare benissimo dalla parte delle scuderie. In fatti si sviarono per la campagna cercando il sentiero che menava alla pustierla: ma non avean camminato cento passi che trovarono l'intoppo di due altre guardie. — È un vero agguato! — sclamò indispettito Lucilio. — Che una nobile donzella debba serenare tutta notte pel capriccio di alcuni mascalzoni! — Badi alle parole, Illustrissimo! — gridò uno dei due dando per terra un furioso colpo col calcio del moschetto. Il giovine tremava di rabbia palpeggiando coll'una mano in fondo alla tasca la sua fida pistola; ma nell'altra sentiva il braccio di Clara che tremava di spavento ed ebbe il coraggio di trattenersi. — Cerchiamo d'intenderci colle buone — riprese egli fremendo ancora pel dispetto. — Quanto volete a lasciar passare qui la Contessina?... Credo che non sospetterete già ch'ella porti qualche contrabbando! — Illustrissimo, noi non sospettiamo niente: — rispose lo sgherro — ma se anche potessimo chiuder un occhio e lasciarli passare, quei del castello sono di diverso parere. Essi hanno buttato a terra tutti e due i ponti e la Contessina non potrebbe entrare che camminando sull'acqua come san Pietro. — Ohimè! ma dunque il pericolo è proprio grave! — sclamò tramortendo la Clara. — Eh nulla! un timor panico! me lo figuro! — rispose Lucilio. E voltosi ancora allo sgherro: — Dov'è il vostro Capo di Cento? — domandò. — Lustrissimo è all'osteria che beve del migliore mentre noi facciamo la guardia ai pipistrelli — rispose il malandrino. — Va bene: spero che non ci negherete di accompagnarci all'osteria per abboccarci con essolui — soggiunse Lucilio. — Ma! non abbiamo ordini in proposito — ripigliò l'altro. — Tuttavia mi pare che si potrebbe, massime se Vostra Signoria volesse pagarne un bicchiere. — Animo dunque e vieni con noi! — disse Lucilio. Lo sbirro si volse al suo compagno raccomandandogli di stare alla posta e di non addormentarsi: raccomandazioni udite con pochissimo conforto da colui che dovea restarsene a mangiar la nebbia mentre l'altro aveva in prospettiva un boccaletto di Cividino. Tuttavia si rassegnò borbottando; e Lucilio e la Clara preceduti dalla Cernida mossero di bel nuovo verso il paese. Questa volta i due guardiani li lasciarono passare, e in breve furono all'osteria dove strepitava una tal gazzarra che pareva più un carnovale che una caccia di contrabbandi. Infatti Gaetano, dopo aver inaffiato le gole de' suoi, aveva cominciato a porger il bicchiere ai curiosi. Costoro, un po' selvatici dapprincipio, s'intesero benissimo con lui con quel muto ed espressivo linguaggio. E gli abbeverati chiamavano compagnia, e questa cresceva si rinnovava e beveva sempre più. Tantoché, mesci e rimesci, in capo ad una mezz'ora la sbirraglia di Venchieredo era diventata una sola famiglia col contadiname del villaggio; e l'oste non rifiniva dal portare a cielo la splendidezza e la rara puntualità del degnissimo Capo di Cento delle Cernide di Venchieredo. Come si può ben credere, tanta munificenza non era né arbitraria né senza motivo. Il padrone gliel'avea suggerita per tener in quiete la popolazione, e distoglierla dal prender partito contro di loro a favore dei castellani. Gaetano adoperava da furbo; e le mire del principale erano ben servite. Se avesse voluto, avrebbe fatto gridare da trecento ubbriachi: — Viva il castellano di Venchieredo! — E Dio sa qual effetto avrebbe prodotto nel castello di Fratta il suono minaccioso di questo grido. Quando Lucilio e la Clara posero piede nell'osteria, la baldoria era al colmo. La giovine castellana avrebbe avuto il crepacuore di veder in festa coi nemici della sua famiglia i più fidati coloni; ma la non ci badava; e la sorpresa e lo sgomento per tutto quel parapiglia le impedivano dal vederci entro chiaro. Temeva qualche grave pericolo pei suoi e le doleva di non esser con loro a dividerlo, non pensando che se pericolo c'era per essi asserragliati ben bene dietro due pertiche di fossato, più grave doveva essere per lei difesa da un unico uomo contro quella canaglia sguinzagliata. Lucilio peraltro non era di tal animo da lasciarsi imporre da chicchessia. Egli andò difilato a Gaetano, e gli ordinò con voce discretamente arrogante di far in maniera che la Contessina potesse entrare in castello. La prepotenza del nuovo arrivato e il vino che aveva in corpo fecero che il Capo di Cento la portasse, per modo di dire, ancor più cimata del solito. Gli rispose che in castello erano una razza perversa di contrabbandieri, che egli aveva precetto di tenerli ben chiusi finché avessero consegnati i colpevoli e le merci trafugate, e che in quanto alla Contessina ci pensasse lui giacché l'aveva a braccio. Lucilio alzò la mano per menare uno schiaffo a quell'impertinente; ma si pentì a mezzo e si torse rabbiosamente i mustacchi col gesto favorito del capitano Sandracca. Il meglio che gli restava a fare era di uscire da quel subbuglio e menare la sua compagna in qualche sicuro ricovero ove passasse la notte. La Clara si oppose dapprima a una tal deliberazione, e volle ad ogni patto giungere fin sul ponte per vedere se veramente era rotto. E Lucilio ve la accompagnò per quanto gli sembrasse pericoloso avventurarsi con una donzella fra quei manigoldi avvinazzati che gavazzavano in piazza. Ma non voleva lo si accagionasse né di aver mancato di coraggio né di aver ommesso cura alcuna per raccompagnare la Clara in casa sua. Però osservate le rovine del ponte e chiamato inutilmente Germano un paio di volte, convenne loro darsi fretta a partire, perché lo schiamazzo cresceva sempre, e la sbirraglia cominciava ad affoltarsi e a provocarli con beffe ed insulti. Lucilio sudava per la fatica durata a moderarsi; ma la briga maggiore era quella di trarre in salvo la donzella, e in tal pensiero diede giù per una stradicciuola laterale del villaggio, e girando poi verso la strada di Venchieredo, giunse a gran passi, trascinandosela dietro, sulle praterie dei mulini. Là si fermò per farle prender fiato. Ella sedette stanca e lagrimosa sul margine d'una siepe, e il giovine si curvò sopra di lei a contemplare quelle pallide sembianze sulle quali la luna appena sorta pareva specchiarsi con amore. I negri fabbricati del castello sorgevano rimpetto a loro, e qualche lume traspariva dalle fessure dei balconi per nascondersi tosto come una stella in cielo tempestoso. L'oscuro fogliame dei pioppi stormeggiava lievemente; e il baccano del villaggio, ammorzato dalla distanza, non interrompeva per nulla i trilli amorosi e sonori degli usignoli. I bruchi lucenti scintillavano fra l'erbe; le stelle tremolavano in cielo; la luna giovinetta strisciava sulle forme incerte e tenebrose con raggio obliquo e velato. La modesta natura circondava di tenebre e di silenzi il suo talamo estivo, ma l'immenso suo palpito sollevava di tanto in tanto qualche ventata di un'aria odorosa di fecondità. — Era una di quelle ore in cui l'uomo non pensa, ma sente; cioè riceve i pensieri begli e fatti dall'universo che lo assorbe. Lucilio, anima pensosa e spregiatrice per eccellenza, si sentì piccolo suo malgrado in quella calma così profonda e solenne. Perfino la gioia dell'amore si diffuse nel suo cuore in un lungo vaneggiamento melanconico e soave. Gli parve che i suoi sentimenti ingrandissero come la nube di polvere sperperata dal vento; ma le forme scomparivano, il colore si diradava; si sentiva più grande e meno forte; più padrone di tutto e meno

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Argomenti: cento passi,    bel nuovo,    nobile donzella,    furioso colpo,    piccolo giro

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