Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 30

Testo di pubblico dominio

guizzolante dei colori più diversi e vivaci. Il cielo fiammeggiante ci si specchiava dentro, e di momento in momento lo spettacolo si dilatava s'abbelliva agli occhi miei e prendeva tutte le apparenze ideali e quasi impossibili d'un sogno. Volete crederlo? Io cascai in ginocchio, come Voltaire sul Grütli quando pronunziò dinanzi a Dio l'unico articolo del suo credo. Dio mi venne in mente anche a me: quel buono e grande Iddio che è nella natura, padre di tutti e per tutti. Adorai, piansi, pregai; e debbo anche confessare che l'animo mio sbattuto poscia dalle maggiori tempeste si rifugiò sovente nella memoria fanciullesca di quel momento per riavere un barlume di speranze. No, quella non fu allora la ripetizione dell'atto di fede insegnatomi dal Piovano a tirate di orecchi; fu uno slancio nuovo spontaneo vigoroso d'una nuova fede che dormiva quieta nel mio cuore e si risvegliò di sbalzo all'invito materno della natura! Dalla bellezza universale pregustai il sentimento dell'universale bontà; credetti fino d'allora che come le tempeste del verno non potevano guastare la stupenda armonia del creato, così le passioni umane non varrebbero mai ad offuscare il bel sereno dell'eterna giustizia. La giustizia è fra noi, sopra di noi, dentro di noi. Essa ci punisce e ci ricompensa. Essa, essa sola è la grande unitrice delle cose che assicura la felicità delle anime nella grand'anima dell'umanità. Sentimenti mal definiti che diverranno idee quando che sia; ma che dai cuori ove nacquero tralucono già alla mente d'alcuni uomini, ed alla mia; sentimenti poetici, ma di quella poesia che vive, e s'incarna verso per verso negli annali della storia; sentimenti d'un animo provato dal lungo cimento della vita, ma che già covavano in quel senso di felicità e di religione che a me fanciullo fece piegar le ginocchia dinanzi alla maestà dell'universo! Povero a me se avessi allor pensato queste cose alte e quasi inesprimibili! Avrei perduto il cervello nella filosofia e certo non tornava più a Fratta per quella notte. Invece quando cominciò ad imbrunire, e mi si oscurò dinanzi quello spettacolo di maraviglie, tornai subito fanciullo, e mi diedi quasi a piangere temendo di non trovar più la strada di Fratta. Avea corso nel venire; nel ritorno corsi più assai; e giunsi al valico del canale che splendeva ancora il crepuscolo. Ma addentratomi nella campagna la cosa cangiò d'aspetto: la notte calava giù nebbiosa e nerissima ed io ch'era venuto, così camminando soprappensiero, non sapea più trovarmi. Principiò a mettermisi intorno un tremore di febbre ed una voglia di correre per arrivare non sapeva nemmen io dove. Mi sembrava che per quanto fossi ito per le lunghe, il correre mi avrebbe menato più presto che l'andare adagio; ma i conti erano sbagliati, perché il precipizio della corsa mi faceva trascurare quegli accorgimenti che potevano almeno aiutarmi a non perdere affatto la tramontana. S'aggiungeva che la fatica mi spossava e che avea d'uopo di tutto lo spavento che mi metteva in corpo il pensiero di non poter arrivare a casa, per persuadere le mie gambe ad andare innanzi. Fortuna volle che volgessi abbastanza diritto per non tornare nelle paludi ove certo mi sarei annegato, e alla fine imboccai una strada. Ma che strada, mio Dio! ora non si adopererebbe questo sostantivo per dinotarla; la si direbbe un ammazzatoio, o peggio. Io ne ringraziai cionullameno la Provvidenza e mi diedi a camminare più tranquillo, divisando con bastevole criterio di chieder contezza della via alle prime case. Ma chi doveva esser stato sì gonzo da piantar casa in quelle fondure? Io mi ci fidava e tirava innanzi. Le prime case una volta o l'altra sarebbero venute. Non aveva fatto per quella stradaccia un mezzo miglio che mi sentii venir dietro il galoppo d'un cavallo. Io mi feci il segno della santa croce tirandomi nel fosso più che poteva; ma il passo era strettissimo e il cavallo aombrando di me diede uno strabalzo in dietro che fece improvvisare una bella filza di bestemmie al cavaliero che lo montava. — Chi è là? fammi strada, mascalzone! — gridò colui con una vociaccia ruvida che mi gelò il sangue nelle vene. — L'abbia misericordia di me! son fanciullo smarrito e non so dove mi vada a finire per questa strada — ebbi fiato di rispondergli. La mia voce infantile e supplichevole commosse certamente colui dal cavallo, perché lo rattenne colle redini benché gli avesse già cacciate le gambe nel ventre per passarmi sopra. — Ah! sei un ragazzo? — soggiuns'egli curvandosi un po' dalla mia banda e mostrandomi una figurona nera nascosta sotto le falde d'un cappellaccio da contrabbandiere o da mago. — Sì, sei un ragazzo; e dove vai? — Andrei a Fratta se il signore mi aiutasse — diss'io ritraendomi per un po' di paura che aveva di quella figura. — Ma come ti trovi in questi dintorni ove non passa mai anima viva di notte? — domandò ancora lo sconosciuto con qualche sospetto nella voce. — Ecco; — risposi io — sono scappato di casa per qualche dispiacere, e camminai camminai, finché giunsi in un bel luogo dove vidi molta acqua molto sole e moltissime belle cose che non so cosa le sieno: ma nel ritorno mi trovai piuttosto imbrogliato, perché si faceva scuro e non mi ricordava la strada, e correndo alla ventura adesso mi vedo qui, e non so proprio dove mi sia. — Sei dietro San Mauro verso la pineta, fanciullo mio; — riprese quell'uomo — ed hai quattro miglia buone per giungere a casa. — Signore, la è tanto buono — soggiunsi io di bel nuovo, facendo forza colla paura maggiore alla minore — che la mi dovrebbe insegnare qual modo debba tenere per giunger a casa per le più spiccie. — Ah tu credi ch'io sia buono? — disse il cavaliere con un accento alquanto beffardo. — Sì, perdiana, che hai ragione, e voglio dartene una prova. Saltami in groppa, e giacché devo passarci, ti metterò giù di fianco al castello. — Sto nel castello appunto — ripresi io non sapendo se dovessi fidarmi alle proferte dello sconosciuto. — Nel castello? — sclamò egli con poco gradevole sorpresa — e a chi appartieni tu, nel castello? — Oh bella! a nessuno appartengo! Sono Carlino, quello che mena lo spiedo e va a scuola dal Piovano. — Manco male; se la è così, salta, ti dico; il cavallo è forte e non se ne accorgerà. Un po' tremando un po' confortandomi io mi arrampicai fin sul dorso della bestia e colui mi aiutava con una mano, dicendo che non avessi timor di cadere. Là in quei paesi si nasce, quasi, a cavallo e ad ogni ragazzotto si dice: — monta su quel puledro! — come gli si dicesse: va' a cavalcione di quella stanga. Or dunque acconciato che mi fui, si diede giù in un galoppo sfrenato che per quella strada aveva tutti i pericoli d'un continuo precipizio. Io mi teneva con ambe le mani al petto del cavaliero e sentiva i peli d'una barba lunghissima che mi soffregavano le dita. — Che fosse il diavolo? — pensai. — Potrebbe anche darsi! — E feci un rapido esame di coscienza dal quale mi parve rilevare che io avea peccati oltre al bisogno per dargli ogni diritto di condurmi a casa sua. Ma mi risovvenne in buon punto che il cavallo s'era impaurito della mia ombra, e siccome i cavalli del diavolo, secondo me, non dovevano avere le debolezze dei nostri, così mi diedi un po' di pace da questo lato. Se non era il diavolo poteva peraltro essere un suo luogotenente, come un ladro, un assassino, che so io? — Nessuna paura per questo: io non aveva denari e mi sentiva l'uomo meglio armato contro ogni ladreria. Così, dopo aver pensato a quello che non era, mi volsi a sindacare quello che poteva essere il mio notturno protettore. Peggio che peggio! Sfido l'immaginazione d'un napoletano di giungere a conclusioni più certe di quelle cui giunsi io; e per me allora io avea finito col decidere che non potea saperne nulla. Tutto ad un tratto il negro soggetto di tali fantasticherie mi si volse incontro col suo gran barbone e mi chiese

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Argomenti: mezzo miglio,    bel sereno,    voce infantile,    rapido esame,    slancio nuovo

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