Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 178

Testo di pubblico dominio

contento di me e delle cose mie. Da Venezia mi davano ottime novelle; l'Aglaura era incinta, il vecchio Apostulos tornato felicemente, mio padre in viaggio per ritornare; e quanto a quest'ultimo, che pel momento mi premeva più di tutti, mi si lasciavano travedere delle grandi cose, delle grandi speranze! Io ci almanaccava dietro da un pezzo; ma solamente da qualche mezza parola di Lucilio avea potuto ricavar qualche lume. Pareva come, che, costituiti in repubblica da Milano a Napoli, volessero o fosse intendimento d'alcuni di dare il ben servito ai Francesi, e fare da sé. Perciò si voleva indurre la Porta Ottomana a collegarsi colla Russia e a dare addosso a Francia nel Mediterraneo; da potenze così lontane non temevasi una diretta preponderanza; si intendeva anzi di opporle all'influenza di governi più vicini ed opportuni a stabili signorie. Da ciò venni in sospetto che mio padre si fosse affaccendato in fin allora in quell'alleanza turco–russa che avea fatto maravigliare il mondo per la sua prestezza e mostruosità. Ma cosa volessero cavarne, allora appunto che i Francesi sembravano disposti più a ritirarsi che a spadroneggiare, io non lo vedeva davvero. Pareva al mio debole giudizio che la nostra indipendenza appoggiata ai Turchi ed ai Russi avrebbe fatto pessima prova della propria solidità. Ma v'avea gente allora che portava più oltre assai le proprie illusioni e lo si comprenderà dalla morte miserrima del generale Lahoz nelle vicinanze d'Ancona. Intanto fermiamoci in Puglia ad osservare i vascelli turco–russi che dai conquistati porti di Zante e di Corfù si volgono alle spiagge tumultuanti della Puglia. Ettore Carafa non era l'uomo delle mezze misure. Giunto dinanzi al suo feudo di Andria i cui abitanti parteggiavano per Ruffo, diede loro assai buone parole di moderazione e di pace. Non ascoltato sfoderò la spada, ordinò l'assalto; e un assalto del Carafa voleva dire una vittoria. Invulnerabile come Achille, egli precedeva sempre la legione; valente soldato colla spada, col moschetto, sul cannone, si mescolava colle abitudini del soldato, e riprendeva a suo grado le maniere di capitano senza dar nell'occhio per soverchia burbanza. Ultimamente alla sua guerriera rozzezza erasi mescolata un'ombra di mestizia: i subalterni ne lo amavano piucchemai, io l'ammirava e lo compiangeva. Ma egli era di quegli uomini che nella propria religione politica trovano un conforto un usbergo contro qualunque sventura; tempre di fuoco e d'acciaio che confondono Dio colla patria la patria con Dio e non sanno pensare a se stessi quando il pubblico bene e la difesa della libertà cingono loro la spada degli eroi. Aveva nella sua grandezza qualche parte di barbaro; non credeva, per esempio, di onorare la valentia dei nemici perdonando e salvando; giudicava gli altri da sé, e passava a fil di spada i vinti in quei casi stessi nei quali egli avrebbe voluto essere ucciso piuttosto che serbato in vita a ornamento del trionfo. Questo splendore antico di feroce virtù e il nome suo potente e famoso in quei paesi gli fecero soggetta in breve tutta la provincia. Egli aveva podestà dittatoria; e se il governo di Napoli avesse avuto altri cinque condottieri simili a lui, né Ruffo né Mammone avrebbero rotto a Marigliano sulle porte di Napoli le ultime reliquie dei repubblicani partenopei. Invece il governo si ingelosì stoltamente di Carafa. Era ben quello tempo da gelosie! — Come se Roma avesse temuto della dittatura di Fabio, quando solo ei restava a difenderla contro il vincitore cartaginese! — Si disse che la Puglia era pacificata, che si voleva adoperare efficacemente la sua attività, che nell'Abruzzo, ove lo si mandava, avrebbe avuto campo di rendere servizi importantissimi. Ettore aveva l'ingenuità e la docilità d'un vero repubblicano; non vide che gatta ci covava sotto queste melate parole e s'avviò per gli Abruzzi. Soltanto, siccome gli sembrava che la provincia senza di lui non fosse per rimanere tanto fedele e sicura quanto si figuravano, così di suo capo dispose che io e Francesco Martelli, altro ufficiale della legione, ci stessimo nelle Puglie alla testa d'una piccola guerricciola di bosco che poteva giovar molto contro le insorgenze parziali che avrebbero ripullulato. Egli fidava grandemente in me; e non senza lagrime di riconoscenza e d'orgoglio io noto la fiducia riposta in me da un tant'uomo. Che l'anima sua generosa e benedetta abbia in altro luogo quel premio che quaggiù non ottenne benché lo avesse valorosamente meritato! Martelli era un giovane napoletano che aveva abbandonato moglie figliuoli ed affari per brandir la spada a difesa della libertà. Ambidue usciti nei campi dal foro, ambidue d'indole mite ma risoluta ci eravamo stretti di fervidissima amicizia fin dalla fazione di Velletri. Egli era stato uno di quei miei compagni che avean scommesso contro di me per la visita del convento; tantoché, siccome quella scommessa era stata d'una cena e d'una festa di ballo per tutti gli ufficiali della legione, e nessuno avea pensato a pagarla, egli si tolse il ghiribizzo di saldare il debito di tutti in Puglia quando a tutt'altro si pensava che a cene ed a feste di ballo. Tornando coi nostri cinquanta uomini dallo aver inseguito alcuni briganti che sotto colore di realisti eran venuti a saccheggiare una cascina poco lontana, trovai una sera il castello d'Andria illuminato, e la gran sala disposta pel ballo e dentrovi buona copia di forosette e di donzelle dei paesi vicini le quali per darsi spasso una sera vollero ben dimenticarsi che noi eravamo repubblicani scomunicati. Martelli m'additò la festa con gesto principesco, dicendo: — Eccoti pagato del debito di Velletri, e avrai anche la cena!... Non si sa cosa possa succedere; domani potremmo esser morti, e ho voluto mettermi in regola. — Morti o non morti il domani, quella sera si ballò di lena, sicché molte volte mi tornò in mente il mio buon Friuli, e quelle famose sagre di San Paolo, di Cordovado, di Rivignano ove si balla, si balla tanto da perderne i sentimenti e le scarpe. Anche i Napoletani e i Pugliesi saltano peraltro la loro parte; e dal sommo all'imo di questa povera Italia non siamo per tanto diversi gli uni dagli altri come vorrebbero darci a credere. Anzi delle somiglianze ve n'hanno di così strambe che non si riscontrano in veruna altra nazione. Per esempio un contadino del Friuli ha tutta l'avarizia, tutta la cocciutaggine d'un mercante genovese, e un gondolier veneziano tutto l'atticismo d'un bellimbusto fiorentino, e un sensale veronese e un barone di Napoli si somigliano nelle spacconate, come un birro modenese e un prete romano nella furberia. Ufficiali piemontesi e letterati di Milano hanno l'eguale sussiego, l'ugual fare di padronanza: acquaioli di Caserta e dottori bolognesi gareggiano nell'eloquenza, briganti calabresi e bersaglieri d'Aosta nel valore, lazzaroni napoletani e pescatori chiozzotti nella pazienza e nella superstizione. Le donne poi, oh le donne si somigliano tutte dall'Alpi al Lilibeo! Sono tagliate sul vero stampo della donna donna, non della donna automa, della donna aritmetica, e della donna uomo che si usano in Francia in Inghilterra in Germania. Checché ne dicano i signori stranieri, dove vengono i loro poeti a cercare ad accattare un sorsellino d'amore?... Qui da noi: proprio da noi, perché solamente in Italia vivono donne che sanno inspirarlo e mantenerlo. E se cianciano dei nostri bordelli, e noi rispondiamo loro... No, non rispondiamo nulla; perché le grandi prostituzioni non iscusano le piccole. L'incarico affidato a me ed a Martelli non era dei più agevoli. Avevamo a che fare con popolazioni ignoranti e selvatiche; con baroni duri e ringhiosi peggio che robespierrini se repubblicani, e armati della più maledetta ipocrisia se partitanti di Ruffo; con curati incolti e credenzoni che mi ricordavano con qualche aggiunta peggiorativa il cappellano di Fratta; con nemici astuti e per nulla schifiltosi nella scelta dei

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Argomenti: debole giudizio,    splendore antico,    feroce virtù,    balla tanto,    sensale veronese

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