Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 127

Testo di pubblico dominio

capitani dell'antica Repubblica!... Il Doge s'alzò in piedi pallido e tremante, dinanzi alla sovranità del Maggior Consiglio di cui egli era il rappresentante, e alla quale osava proporre una viltà senza esempio. Egli aveva letto le condizioni proposte dal Villetard per farsi incontro ai desiderii del Direttorio francese, e placar meglio i furori del general Bonaparte. Le approvava per ignoranza, le sosteneva per dappocaggine, e non sapeva che il Villetard, traditore per forza, aveva promesso quello che nessuno aveva in animo di mantenere: Bonaparte meno di tutti gli altri. Lodovico Manin balbettò alcune parole sulla necessità di accettare quelle condizioni, sulla resistenza inutile, anzi impossibile, sulla magnanimità del general Bonaparte, sulle lusinghe che si avevano di fortuna migliore per mezzo delle consigliate riforme. Infine propose sfacciatamente l'abolizione delle vecchie forme di governo e lo stabilimento della democrazia. Per la metà di un tale delitto Marin Faliero era morto sul patibolo; Lodovico Manin seguitava a disonorare coi suoi balbettamenti sé, il Maggior Consiglio, la patria, e non vi fu mano d'uomo che osasse strappargli dalle spalle il manto ducale, e stritolare la sua testa codarda su quel pavimento dove avevano piegato il capo i ministri dei re e i legati dei pontefici! — Io stesso ne ebbi pietà; io che nell'avvilimento e nella paura d'un doge non vedeva altro allora che il trionfo della libertà e dell'eguaglianza. Tutto ad un tratto rimbombano alcune scariche di moschetteria: il Doge si ferma costernato e vuol discendere i gradini del trono; una folla di patrizi spaventata se gli accalca intorno gridando: — Alla parte, ai voti! — Il popolo urla di fuori; di dentro crescono la confusione e lo sgomento. Sono gli Schiavoni ribelli! (gli ultimi partivano allora e salutavano con quegli spari l'ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati (i sogni di Lucilio). È il popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (il popolo nonché preferire l'obbedienza a que' nobili, alla più dura servitù che lo minacciava, amava anzi quell'obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti, la fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono la parte non ancor letta, che conteneva l'abdicazione della nobiltà, e lo stabilimento d'un Governo Provvisorio Democratico, sempreché s'incontrassero con esso i desiderii del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano i supremi voleri del medesimo e il trattato che si stava stipulando, davasi per motivo l'urgenza dell'interno pericolo. Venti soli voti si opposero a questo vile precipizio; cinque ne furono di non sinceri. Lo spettacolo di quella deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte fisonomie, che vidi allora in quella torma di pecori avvilita tremante vergognosa, le veggo anche ora dopo sessant'anni con profondo avvilimento. Ancora ricordo le sembianze cadaveriche sformate di alcuni, l'aspetto smarrito e come ubbriaco di altri, e l'angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred'io, gettati dalle finestre per abbandonare più presto la scena della loro viltà. Il Doge corse alle sue stanze svestendosi per via delle sue insegne, e ordinando che si togliessero dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi a scordare il proprio vitupero nello spettacolo d'un vitupero maggiore. Chi usciva in Piazza aveva cura prima di gettare la perrucca e la toga patrizia. Noi soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi (eravamo cinque o sei), corsimo alle finestre e alla scala gridando: — Viva la libertà! — Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle bocche di quelli che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi; il romore il gridio cresceva sempre; io credetti che un puro e generoso entusiasmo trasformasse quei mezzi uomini in eroi, e mi precipitai nella Piazza, gettando in aria la mia perrucca e urlando a perdifiato: — Viva la libertà! — Il general Salimbeni, appostato con qualche altro cospiratore, s'era già messo a strepitare in mezzo al popolo eccitandolo al tripudio e al tumulto. Ma la turba gli si scagliò contro furibonda, e lo costrinse a gridare: — Viva San Marco! — Quelle nuove grida soffocarono le prime. Molti, massime i lontani, credettero che la vecchia Repubblica fosse uscita salva dal terribile cimento della votazione. — Viva la Repubblica! Viva San Marco! — fu una sola voce in tutta la piazza gremita di gente; le bandiere furono inalberate sulle tre antenne; l'immagine dell'Evangelista fu portata in trionfo; e un'onda minacciosa di popolo corse alle case di quei patrizi che erano in voce d'aver congiurato per la chiamata dei Francesi. In mezzo alla folla, incerto confuso diviso dai compagni, m'incontrai in mio padre e in Lucilio forse meno confusi ma più avviliti di me. Essi mi presero fra loro e mi trascinarono verso la Frezzeria. Quei pochi patrizi che aveano votato per l'indipendenza e la stabilità della patria ci passarono rasente colle loro perrucche, colle loro toghe strascicanti. Il popolo faceva largo senza improperi ma senza plauso. Lucilio mi strinse il braccio. — Li vedi? — mi bisbigliò all'orecchio — il popolo grida: “Viva San Marco!” e non ha poi il coraggio di portar in trionfo, e di crear doge uno di questi ultimi e degni padroni che gli restano!... Servi, servi, eternamente servi! Mio padre non si perdeva in sofisticherie; egli affrettava il passo come meglio poteva, e gli tardava l'ora di trovarsi nella sua camera per meditare al sicuro il pro' ed il contro. Un proclama della nuova Municipalità che dipingeva la vile condiscendenza dei patrizi come un libero e spontaneo sacrifizio alla sapienza dei tempi, alla giustizia e al bene di tutti rimise la tranquillità nel buon popolo veneziano. Come il dente d'un topo basta per far calare a fondo una nave tarlata, così l'intrigo di un segretariuccio parigino, di quattro o cinque traditori, e d'alcuni repubblicani avea bastato per rovesciare quell'edifizio politico che aveva resistito a Solimano II e alla lega di Cambrai. Rivolgimenti senza grandezza perché senza scopo; ai quali dovrebbero chiedere lume d'esperienza i caporioni di partito, quando la fortuna consegna alle loro mani le sorti della patria. Quattro giorni dopo barche veneziane condussero a Venezia truppe francesi: e una città difesa pochi giorni prima da undicimila Schiavoni, da ottocento pezzi d'artiglieria, e da duecento legni armati si consegnò spoglia, volontaria incatenata alla soldatesca balìa di quattromila venturieri capitanati da Baraguay d'Hilliers. La Municipalità fece codazzo a costoro fra il silenzio e il disprezzo della folla. Io pure come segretario ebbi la mia parte di quei taciti insulti; ma l'entusiasmo della Pisana, e le esortazioni di mio padre mi animavano a tutto sopportare per amore della libertà. Compativa agli ignoranti né credeva di compatire ai miseri. Il mio coraggio fu debolmente smosso dalle risposte venuteci dalle provincie di terraferma al nostro invito di accedere al nuovo governo. I podestà tentennavano, i generali francesi si beffavano di noi. Venezia rimase sola colla sua libertà di falso conio. — L'Istria e la Dalmazia venivano intanto occupate dall'Austria, giusta la facoltà concessa dai segreti preliminari di Leoben. Anche questo non mi andava a versi. La Francia con flotte veneziane s'impadroniva de' nostri possedimenti nell'Albania e nell'Ionio; minaccia di peggiori oltracontanze. Povero segretario io non aveva testa bastevole per accordare tutte queste contraddizioni e farmene un criterio. Sospirava, lavorava, e aspettava di meglio. Intanto gioverà notare il peccato per cui cadde Venezia inonorata e incompianta dopo quattordici secoli di vita meritoria e gloriosa. Nessuno, credo io, avvisò fino ad ora o formulò a dovere la causa della sua rovina. Venezia non era più che una città

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Argomenti: governo provvisorio,    fortuna migliore,    grido santo,    generoso entusiasmo,    terribile cimento

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