Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 72

Testo di pubblico dominio

era fanciullo, io le credeva ciecamente. Come ad onta delle sue passeggiere civetterie mi fidava di lei un tempo, sicuro che in fondo al cuore non ci stava che io, così allora tornava a persuadermi che i frutti di quel ravvedimento dovessero essere eterni. Giungeva quasi a trovare in quelle apparenti infedeltà e in quelle pronte pacificazioni una prova di più ch'ella non poteva amare che me né vivere senza di me. Io non le mossi adunque parola delle mie torture, schivai di rispondere alle sue dimande, indovinando quasi che la confessione d'una gelosia è il più caldo incentivo di nuove infedeltà. Accusai una bizzarria d'umore, un malessere inesplicabile, e chiusi il varco ad altre inchieste col lasciar libero campo alla mia gioia e allo sfogo d'un cuore chiuso in se stesso da tanto tempo. La Pisana folleggiava con me da vera pazzerella: pareva che quel suo ghiribizzo momentaneo non avesse lasciato traccia alcuna né nella memoria né nella coscienza; io mi consolai di ciò, mentre se fossi stato ben avveduto, avrei dovuto spaventarmene. Mi abbandonai dunque con piena sicurezza a quella corrente di felicità che mi trasportava; tanto più sicuro e beato, che la fanciulla mi sembrò a que' giorni docile amorosa e fin'anco umile e paziente quale non era mai stata. Era un tacito compenso, offerto senza saperlo, dei torti fattimi? Non lo saprei dire. Forse anche la timorosa adorazione di Lucilio aveva svezzato per poco l'anima sua dai moti violenti e tirannici; a me dunque toccava raccogliere quello che un altro aveva seminato. Ma questo dubbio che adesso mi avvilirebbe, allora non mi passava nemmeno pel capo. Bisogna aver vissuto e filosofeggiato a lungo per imparar a dovere la scienza di tormentarsi squisitamente. La Contessa benché lievemente indisposta migliorava assai a rilento. Era così piena di scrupoli e di smorfie che non bastavano l'eloquenza italiana e latina del dottor Sperandio, la pazienza di Lucilio, i conforti di monsignor di Sant'Andrea, le cure del marito e della Clara e quattro pozioni al giorno, per calmarla un poco. Soltanto un giorno che le fu annunziata la visita della cognata Frumier, si riebbe subitamente e dimenticò l'infinita caterva dei suoi mali per pettinarsi, pulirsi, mettersi in capo la più bella e rosea cuffietta della guardaroba, e farsi addobbar il letto con cuscini e coperte orlate di merlo. Da quel momento la sua convalescenza fu assicurata, e si poté cantare un Te Deum nella cappella per la ricuperata salute dell'eccellentissima padrona. Monsignor Orlando cantò quel Te Deum con tutta l'effusione del cuore, perché non si avea mangiato mai così male a Fratta come durante la malattia di sua cognata. Tutti erano occupati a lambiccar decotti, a preparar panatelle, a portar brodi e scodelle; e le pignatte intanto rimanevano vuote e ad ora di pranzo si doveva accontentarsi di pietanze improvvisate. Per ripristinar la famiglia nei soliti uffici e cambiare in ferma salute la lunga convalescenza della Contessa, ci vollero non meno di quattro o cinque visite della cognata; in fin delle quali eravamo giunti al cuor dell'inverno, ma la floridezza di quelle guance preziose era assicurata per altri trent'anni. Monsignor Orlando rivide con piacere il campo del focolare ripopolarsi a poco a poco dei larghi tegami e delle brontolanti pignatte. Se fosse ancora continuato quel regime di mezza astinenza egli avrebbe pagato colla propria vita la guarigione della cognata. Io e la Pisana intanto ci avevamo guadagnato alcuni mesi di buon accordo e di pace. Buon accordo lo dico, così per dire; perché in sostanza si era tornati alla vita di prima: agli amoruzzi cioè, ai dispetti, alle gelosie, ai rappaciamenti d'una volta. Donato, il figliuoletto dello speziale, e Sandro del mulino mi facevano talvolta crepare di bile. Ma l'era una cosa tutta diversa. A questi attucci io era abituato da molto tempo, e d'altronde la Pisana, se era duretta e caparbia nelle sue tenerezze per me, lo era a tre doppi sopra gli altri fanciulli. Né vedeva farsi in lei a vantaggio di loro quel cambiamento che la rendeva così umile, così tremante, così impensierita al cospetto di Lucilio nella sala della zia. Le angoscie sofferte allora non avevano lasciato per verità traccia alcuna nel mio cuore; ma ne ricordava la causa e molte volte erami venuto sulla punta della lingua di muoverne cenno alla Pisana per vedere quanto ne ricordasse ella, ed in che modo. Peraltro titubava sempre e non sarei forse venuto mai ad effettuare un tal desiderio, se ella non me ne porgeva un giorno l'occasione. Lucilio scendeva le scale dopo aver visitato la Contessa già quasi ristabilita e la vecchia Badoer, e s'avviava verso il ponticello della scuderia, riedificato con tutti gli accorgimenti d'una buona difesa, sotto la direzione del capitano Sandracca; la Clara gli veniva del paro per passar nell'orto a cogliervi quattro foglie d'erba luisa, e qualche geranio che lottava ancora contro le punture della brina. Erano corsi parecchi giorni senzaché si potessero vedere; le loro anime tumultuavano, piene di quei sentimenti che di tempo in tempo vogliono essere espressi con ardore, con libertà per non ritorcersi dentro di noi in alimento velenoso. Aspiravano all'aria libera, alla solitudine; e già, varcato il ponte e sicuri di esser soli, pregustavano la beatitudine di potersi ripetere quelle dolci dimande e quelle eterne risposte dell'amore che devono bastare ai colloqui di due che si vogliono bene. Parole mille volte ripetute, ed udite, sempre con significato e con piacere diverso; le quali basterebbero a provare che l'anima sola possiede la magica virtù del pensiero, e che il moto delle labbra non è altro che un vano balbettio di suoni monotoni senza il suo interno concento. Lucilio stava già per aprire il varco a tutto quell'amore che da tanti giorni lo soffocava, quando udì dietro di sé il passo saltellante e la vocina acuta della Pisana che gridava: — Clara, Clara, aspettami dunque, che vengo anch'io a farmi un mazzetto! — Lucilio si morse le labbra e non poté o non credette necessario celare il proprio dispetto; la Clara invece, che si era volta colla solita bontà a guardar la sorella, ebbe bisogno di osservare l'addolorato volto del giovine per rattristarsi anch'essa. Quanto a sé, il contento procurato alla fanciulletta da un mazzo di fiori l'avrebbe forse pagata delle mancate delizie d'un colloquio tanto sospirato coll'amante. Era buona, buona anzi tutto; e in anime così fatte perfino la violenza delle passioni s'attuta alla considerazione dei piaceri altrui. Ma al giovine non garbava forse questa facile rassegnazione, e il suo dispetto se ne accrebbe di molto. Si volse egli dunque con viso un po' arrovesciato alla Pisana, e le domandò se avesse lasciato sola la nonna. — Sì, ma ella stessa mi ha permesso di venire a coglier fiori colla Clara — rispose la Pisana stizzosamente, perché non consentiva a Lucilio l'autorità di sindacarla a quel modo. — Quando si ha cuore e gentilezza di animo, bisogna saper non usare di certi permessi; — soggiunse Lucilio — una vecchia malata e bisognevole di compagnia non va piantata lì senza ragione, per quanto essa sembri permetterci di farlo. La Pisana sentì venirsi agli occhi le lagrime della rabbia; volse dispettosamente le spalle e non rispose nemmeno alla Clara che le diceva di fermarsi e di non essere così permalosa. La fanciulletta corse difilato nell'anticamera della cancelleria dov'io aveva il mio studio, e rossa di sdegno e di vergogna mi saltò colle braccia al collo. — Cos'è stato? — io sclamai gettando la penna, e alzandomi da sedere. — Oh, me la pagherà il signor Merlo!... sì che me la pagherà! — balbettava fremente la Pisana. Io mi era svezzato dall'udirla adoperare questo soprannome, e non intendeva di chi volesse parlare. — Ma chi è questo signor Merlo, cosa ti ha fatto? — le chiesi io. — Eh!... il signor Merlo di Fossalta, che vuol intricarsi de' fatti miei, e

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Argomenti: libero campo,    caldo incentivo,    ghiribizzo momentaneo,    parole mille,    vano balbettio

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