Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 209

Testo di pubblico dominio

morte e l'aspetto d'un ottuagenario. Partì curvo, barcollante, mormorando strane parole. La Clara si fece il segno della croce, e m'invitò con voce posatissima a riprendere il nostro rosario. Io soggiunsi che doveva riscaldar il brodo per mio marito, e me ne dispensai; perché proprio quella scena mi avea fatto male. Non avrei mai creduto che tanta passione covasse sotto quelle apparenze di ghiaccio, durando invitta attraverso le vicende gli strabalzi i rivolgimenti d'una vita poco meno che favolosa. Ve lo ricordate a Napoli e a Genova? Non pareva che si fosse dimenticato affatto della Clara? Ce ne chiedeva egli mai novella? Mai! Certo mi son convinta che a giudicar nettamente gli uomini bisogna aspettare che siano morti. E voi pure, Carlo, soprastate a giudicar me finch'io non abbia raggiunto la mia povera madre!”. Seguivano poi i soliti saluti e più affettuosi del solito per l'Aquilina Bruto e i miei figliuoli, già grandicelli, poverini, e pieni di cuore e di buona volontà. Mi si raccomandava inoltre di porre una piccola pietra di commemorazione nel cimitero di Fratta per monsignor Orlando; ma a ciò io aveva già pensato mesi addietro, e don Girolamo, a dispetto del fratello notaio, mi avea prevenuto in questa pia opera. Quella lapide portava un'iscrizione di cui si potevano perdonare le eleganti bugie, perché già nessuno ci capiva nulla in paese. Peraltro un certo compare che sapeva di lettere era giunto ad interpretarla fino ad un certo punto, dove si diceva che il reverendo canonico era morto octuagenarius: il che significava agli otto di gennaio, secondo lui. Ma molti si ribellavano, soggiungendo che non agli otto di gennaio era morto ma ai quindici. — Eh? cosa mai! — rispondeva il valentuomo — vorreste che gli scalpellini badassero a queste minuzie? Giorno più giorno meno, l'importante è che sia morto per incastrargli addosso la lapide. Io diedi contezza alla Pisana di questo suo pietoso desiderio già adempiuto da un pezzo, lodandone molto don Girolamo, il quale, benché non fosse né un Vincenzo di Paola né un Francesco d'Assisi, pur sapea farsi perdonare dai poverelli di Portogruaro la roba mal acquistata dal padre. — Non son tutti come il padre Pendola! — diceva io. Ella mi rispose che a proposito del padre Pendola se ne contavano di belle. Dappoiché il Papa aveva reintegrato la Compagnia di Gesù, egli s'adoperava molto per ottenerne lo stabilimento in Venezia. Siccome il novello istituto delle convertite non prosperava, si voleva ottenere dal consenso delle poche suore rimaste e colla debita licenza dei superiori di erogarne le entrate al primo impianto d'una casa e d'un collegio di novizi. Peraltro il governo pareva alieno dal favoreggiare quest'idea; anzi l'avvocato Ormenta, che la caldeggiava, era in voce di dover essere giubilato. Da questa notizia io capii tutto il maneggio di quella faccenda e come quei dabben sacerdoti primi fondatori dell'istituto fossero stati ubbidientissimi burattini nelle mani del padre Pendola. Ma già anche per costui poco dovea durare la cuccagna; infatti morì anch'esso senza vedere i reverendi Padri stabiliti in Venezia. Buoni e tristi, tutti alla lunga dobbiamo andare. Al padre Pendola non mancarono né epitaffi né satire né panegirici né libelli. Chi voleva canonizzarlo e chi seppellirne in acqua il cadavere. Egli avea supplicato, morendo, quelli che lo assistevano di essere dimenticato come un indegno servo del Signore; né credeva che lo avrebbero ubbidito così appuntino. Dopo una settimana non se ne parlava già più, e di tanta ambizione null'altro era rimasto che un vecchio e marcio carcame ravvolto in una tonaca e inchiodato fra quattro assi d'abete. Nemmeno gli avean lustrato la cassa come si usa ai morti di rilievo! Che ingratitudine!... In fin dei conti poi credo che la Curia patriarcale fu contenta di essere liberata dal pericoloso aiuto d'un sì furbo zelatore della gloria di Dio e dei proprii interessi. Uscivano i vecchi attori, entravano i nuovi. Demetrio Apostulos, il primogenito di Spiro aveva vent'anni; Teodoro, il secondo, toccava i diciotto. I miei due stavano fra i dieci ed i dodici. Donato ne aveva tre, fra i sedici e i ventidue, tre robusti giovinotti davvero, che guai se fossero stati in età al tempo delle ultime leve napoleoniche!... Allora si continuava bensì anno per anno la coscrizione, in onta ai largheggianti proclami della Santa Alleanza; ma facilmente si concedevano gli scambi, e colla pace che si prevedeva lunghissima e profonda, molti infingardi concorrevano volentieri ai ben pasciuti ozii della milizia. La giovine generazione accennava all'antica di ritrarsi; poteva anche accennare superbamente, come poco contenta di noi; non avrebbe avuto il torto. Ma al contrario ci ammirava come aiutatori e testimoni di grandi imprese, di generosi tentativi, di incredibili portenti: pareva ci dicesse: “Dirigetemi, acciocché non cada dove voi siete caduti!...”. Ci voleva altro che direzione; ci voleva nerbo e non ne avevamo più; ci abbisognava la concordia, e avean saputo renderla impossibile. Al milleottocentodiciannove durava in Europa quell'inquietudine nervosa che dura in un corpo dopo la corsa sfrenata e trafelante di alcune ore; idee chiare, sentimenti generosi e universali non erano più, se non forse in qualche testa segregata dalla folla per indolenza, per disdegno, per disperazione. Anche dove i popoli per sentimento nazionale avevano cooperato alla reazione contro la Francia, la ingratitudine premeditata dei grandi e la varia diffidenza dei piccoli mettevano ogni cosa a subbuglio. Credevano di tirar innanzi una grande impresa di libertà; invece non avevano assicurato che l'interesse di alcuni sommi a scapito di molte vere franchigie. E questo avveniva specialmente in Germania. Da noi invece, malcontenti del passato, perché passato senza lasciarci quella grassa eredità che s'aspettava, malcontenti del presente, perché somigliava una crudele canzonatura, i più s'adagiarono a vivacchiare, come si dice, a imbottirsi un guscio, a fornir la cucina. L'esperienza aveva indotto una grandissima disparità d'opinioni; perciò anche i pochi bene avveduti non ne speravano nulla o speravano troppo lontano. Solamente coloro che si erano avvezzati a quella meravigliosa attività e non potevano distogliersene a rischio anche di lavorare per nulla, guardavano ansiosamente alla Spagna dove ferveva lo spirito liberalesco. Esclusi dal maneggio degli affari, il talento di comandare, invincibile e legittimo negli operosi ed assennati, li traeva, come dissi, alle società segrete. Dalle Calabrie i Carbonari aprivano le loro vendite per tutta Italia e davano mano ai democratici di Francia, ai progressisti di Spagna. La vecchia razza latina ringiovanita dall'immaginazione e dal sentimento si gettava col suo impeto naturale nella battaglia dei tempi. Di là dal mare rispondeva la Grecia, meno avanzata in civiltà, ma più matura all'indipendenza per consentimento del popolo e per armonia d'opinioni. Il grido disperato di libertà che la vendetta di Alì Tebelen volse ai Greci, prima suoi nemici, risonò in tutti i cuori, dalle fumanti rovine di Parga alle rive melodiose di Sciro. I congressi degli alleati avevano posato un gran masso di ghiaccio sul cuore dell'Europa; ma il fuoco sprizzava all'estremità; muggivano minacciose le viscere della terra. Fu sullo scorcio del milleottocentoventi che, essendosi immiserite d'assai le nostre condizioni, e venendomi da Spiro buone speranze di aver pagamento del mio famoso credito di Costantinopoli, deliberai andarne a Venezia per abboccarmi secolui. Già fino dal luglio i Carbonari avevano improvvisato la rivoluzione di Napoli, ricavandone pel paese una larghissima costituzione; ma il re Ferdinando era già ito al Congresso degli Alleati in Troppau ove non istava più tanto in parola colle libere note ad essi inviate da Napoli. Laggiù si armavano contro la tempesta che s'addensava a settentrione. Una mia gita nel

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Argomenti: grande impresa,    certo compare,    pietoso desiderio,    novello istituto,    indegno servo

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