Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 126

Testo di pubblico dominio

grazia si sarebbe lasciato cavar un dente. Io intanto non poteva resistere al piacere di pavoneggiarmi dinanzi alla Pisana colle mie future splendidezze, e lasciava travedere che nel nuovo governo ci sarebbe stato un bel seggio anche per me. — Davvero Carlino? — mi chiese cheta cheta la donzella. — Ma non siamo intesi che dobbiate metter sul trono l'eguaglianza? Io alzai le spalle dispettosamente. Andate dunque a filosofeggiare con donne! Non so peraltro se tacqui per disdegno o per non saper cosa rispondere. Il fatto sta che per quella sera l'ambizione scavalcò affatto l'amore, e che mi partii dalla Pisana che non avrei nemmen saputo dire di qual colore avesse gli occhi. Salutai Giulio soprappensiero in Frezzeria, e m'avviai soletto e ballonzolando d'impazienza per la Riva degli Schiavoni. Mi ricorderò sempre di quella sera memorabile dell'undici maggio!... Era una sera così bella così tiepida e serena che parea fatta pei colloqui d'amore per le solinghe fantasie per le allegre serenate e nulla più. Invece fra tanta calma di cielo e di terra, in un incanto sì poetico di vita e di primavera una gran repubblica si sfasciava, come un corpo marcio di scorbuto; moriva una gran regina di quattordici secoli, senza lagrime, senza dignità, senza funerali. I suoi figliuoli o dormivano indifferenti o tremavano di paura; essa, ombra vergognosa, vagolava pel Canal Grande in un fantastico bucintoro, e a poco a poco l'onda si alzava e bucintoro e fantasma scomparivano in quel liquido sepolcro. Fosse stato almeno così!... Invece quella morta larva rimase esposta per alcuni mesi, tronca e sfigurata, alle contumelie del mondo; il mare, l'antico sposo, rifiutò le sue ceneri; e un caporale di Francia le sperperò ai quattro venti, dono fatale a chi osava raccoglierle! Ci fu un momento ch'io alzai involontariamente gli occhi sul Palazzo Ducale e vidi la luna che abbelliva d'una vernice di poesia le sue lunghe logge e i bizzarri finestroni. Mi pareva che migliaia di teste coperte dell'antico cappuccio marinaresco o della guerresca celata sporgessero per l'ultima volta da quei mille trafori i loro vacui sguardi di fantasma; poi un sibilo d'aria veniva pel mare che somigliava un lamento. Vi assicuro che tremai; e sì ch'io odiava l'aristocrazia e sperava dal suo sterminio il trionfo della libertà e della giustizia. Non c'è caso; vedere le grandi cose adombrarsi nel passato e scomparire per sempre è una grave e inesprimibile mestizia. Ma quanto più son grandi queste cose umane, tanto più esse resiston anche colle compagini fiacche e inanimate all'alito distruttore del tempo; finché sopraggiunge quel piccolo urto che polverizza il cadavere, e gli toglie le apparenze e perfin la memoria della vita. Chi s'accorse della caduta dell'Impero d'Occidente con Romolo Augustolo? — Egli era caduto coll'abdicazione di Diocleziano. — Chi notò nel 1806 la fine del Sacro Romano Impero di Germania? — Egli era scomparso dalla vista dei popoli coll'abdicazione di Carlo V. — Chi pianse all'ingresso dei Francesi in Venezia la rovina d'una grande repubblica, erede della civiltà e della sapienza romana, e mediatrice della cristianità per tutto il Medio Evo? — Essa si era tolta volontariamente all'attenzione del mondo dopo l'abdicazione di Foscari. Le abdicazioni segnano il tracollo degli stati; perché il pilota né abbandona né è costretto ad abbandonare il timone d'una nave che sia guernita d'ogni sua manovra e di ciurme esperte e disciplinate. Le disperazioni, gli abbattimenti, l'indifferenza, la sfiducia precedono di poco lo sfasciarsi e il naufragio. Io volsi dunque gli occhi al Palazzo Ducale e tremai. Perché non distruggere quella mole superba e misteriosa, allora che l'ultimo spirito che la animava si perdeva per l'aria?... In quei marmi rigidi eterni, io presentiva più che una memoria un rimorso. E intanto vedeva più in giù sulla riva i fedeli Schiavoni che mesti e silenziosi s'imbarcavano; forse le loro lagrime consolarono sole la moribonda deità di Venezia. Allora mi sorse nell'anima una paura più distinta. Quella nuova libertà quella felice eguaglianza quella imparziale giustizia coi Francesi per casa cominciò ad andarmi un po' di traverso. Avea ben avvisato Lucilio di operare la rivoluzione prima che Bonaparte ce ne mandasse da Milano l'ordine e le istruzioni; ma ciò non toglieva che i Francesi sarebbero venuti da Mestre: e una volta venuti, chi sa!... Fui pronto ad evocare la magnanima superbia d'Amilcare per liberarmi da queste paure. “Oh bella!” pensai “siam poi uomini come gli altri; e questo nuovo fuoco di libertà che ci anima sarà all'uopo fecondo di prodigi. Di più l'Europa non potrà esserci ingrata; il suo proprio interesse non gliel consente. Colla costanza con la buona volontà torneremo ad esser noi: e gli aiuti non devono mancare o da poggia o da orza!...”. Con tali conforti tornai verso casa ove mio padre mi significò che era molto contento del posto a me riserbato nella futura Municipalità; e che badassi a condurmi bene e ad assecondare i suoi consigli, se voleva andare più in su. Non mi ricordo cosa gli risposi; so che andai a letto e che non chiusi occhio fino alla mattina. Potevano esser le otto e tre quarti quando sonò la campana del Maggior Consiglio, ed io m'avviai verso la Scala dei Giganti. Per quanto avessero fretta i signori nobili di commettere il gran matricidio, le delizie del letto non consentirono che si anticipasse più d'un quarto d'ora sul solito orario. I comparsi furono cinquecento trentasette; numero illegale giacché per inviolabile statuto ogni deliberazione che non si fosse discussa in un'adunanza di almeno seicento membri si considerava illegittima e nulla. La maggior parte tremava di paura e d'impazienza; avevano fretta di sbrigarsi, di tornare a casa, di svestir quella toga, omai troppo pericolosa insegna d'un impero decaduto. Alcuni ostentavano sicurezza e gioia; erano i traditori; altri sfavillavano d'un vero contento, d'un orgoglio bello e generoso pel sacrifizio che cassandoli dal Libro d'Oro li rendeva liberi e cittadini. Fra questi io ed Agostino Frumier sedevamo stringendoci per mano. In un canto della sala venti patrizi al più stavano ravvolti nelle loro toghe rigidi e silenziosi. Alcuni vecchioni venerandi che non comparivano da più anni al Consiglio e vi venivano quella mattina ad onorare la patria del loro ultimo e impotente suffragio; qualche giovinetto fra loro, qualche uomo onesto che s'inspirava dai magnanimi sentimenti dell'avo del suocero del padre. Mi stupii non poco di vedere in mezzo a questi il senatore Frumier e il suo figlio primogenito Alfonso; giacché li sapeva devoti a San Marco, ma non tanto coraggiosamente, come mi fu veduto allora. Stavano uniti e quasi stretti a crocchio fra loro; guardavano i compagni non colla burbanza dello sprezzo né col livore dell'odio, ma colla fermezza e la mansuetudine del martirio. Benedetta la religione della patria e del giuramento! Là essa risplendeva d'un ultimo raggio senza speranza e tuttavia ripieno di fede e di maestà. Non erano gli aristocratici, non erano i tiranni; né gli inquisitori; erano i nipoti dei Zeno e dei Dandolo che ricordavano per l'ultima volta alle aule regali le glorie e le virtù degli avi. Li guardai allora stupito ed ostile; li ricordo ora meravigliato e commosso; almeno io posso ridere in faccia alle storie bugiarde, e non evocare dall'ultimo Maggior Consiglio di Venezia una maledizione all'umana natura. In tutta la sala era un sussurrio, un fremito indistinto; solo in quel canto oscuro e riposto regnavano la mestizia e il silenzio. Fuori il popolo tumultuava; le navi che tornavano dal disarmamento dell'estuario, alcuni ultimi drappelli di Schiavoni che s'imbarcavano, le guardie che contro ogni costume custodivano gli anditi del Palazzo Ducale, tutti presagi funesti. Oh è ben duro il sonno della morte, se non si svegliarono allora, se non uscirono dai loro sepolcri gli eroi, i dogi, i

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Argomenti: nuovo governo,    palazzo ducale,    uomo onesto,    nuovo fuoco,    canto oscuro

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