Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 207

Testo di pubblico dominio

da Venezia, e sapendo che la Pisana accasata colla Clara presso suo marito non d'altro si occupava che di curare le infermità di questo, mi uscirono da capo certi giudizi temerari che aveva fatto sulla sua fuga dal Friuli. S'ella fosse stata arrabbiata contro di me, non ne avrebbe dato segno a quel modo. Io conosceva per pratica le vendette della Pisana. Intanto anche lontano non cessava di esserle utile. Avea rimesso in buon sesto l'amministrazione di quei pochi coloni che dipendevano ancora dal castello di Fratta, e regolato l'esazione di molti livelli. Le entrate crebbero del trenta per cento. Monsignore poté mangiare qualche cappone che non era gallo, e il conte Rinaldo, malgrado la sua selvatichezza, m'ebbe a ringraziare dell'essermi adoperato a loro pro' senz'essere richiesto, e con tanta efficacia. Vi prenderà stupore e noia che la mia vita per qualche tempo così capricciosa e disordinata riprendesse allora un tenore sì quieto e monotono. Ma io racconto e non invento: d'altra parte è questo un fenomeno comunissimo e naturale nella vita degli Italiani, che somiglia spesso al corso d'un gran fiume calmo lento paludoso interrotto a tratti da sonanti e precipitose cascate. Dove il popolo non ha parte del governo continuamente, ma se la prende a forza di tanto in tanto, questi sbalzi queste metamorfosi devono succedere di necessità, perché altro non la vita del popolo se non la somma delle vite individuali. Per questo io girai alcuni anni lo spiedo, fui studente e un po' anche cospiratore; indi tranquillo cancelliere, poi patrizio veneto nel Maggior Consiglio e segretario della Municipalità: da amante spensierato di tutto mi mutai di colpo in soldato: di soldato in ozioso un'altra volta, poi in intendente e in maggiordomo: finii a maritarmi e a sonar l'organo. In questo perpetuo su e giù, se salii o scesi lo direte voi: io per me so che ci consumai trentaquattr'anni, quegli anni nei quali vissi tutto per me. Dopo, la famiglia i legami i doveri precisi e materiali s'impadronirono de' miei sentimenti. Non fui più il puledro che scorazza pei paludi saltando fossati e sforacchiando fratte, ma il cavallo bardato che tira gravemente o la carrozza d'un cardinale o il carretto della ghiaia. Ma non vi spaventate; non mancheranno terremoti e rovesciate per tornare in libertà il cavallo e fargli riprendere una matta corsa attraverso il mondo. Solamente ora sono sicuro di non correr più; ma ho, vi ripeto, come Monsignore, lo scirocco degli ottant'anni nelle gambe. Mentre io mi faceva dì per dì sempre più casalingo e campagnuolo, e al mio piccolo Luciano che già trottolava nel cortile aggiungeva un secondo fanciulletto cui misimo nome Donato in onore dello zio che gli fu padrino, nel mondo strepitavano le glorie guerresche di Napoleone. Vinceva la Prussia a Jena, l'Austria a Wagram; s'imparentava colle vecchie dinastie, e signore dell'Europa chiudeva il continente all'Inghilterra e minacciava il mezzo asiatico impero degli Czar. L'Italia, tutta in suo pugno sbocconcellata a capriccio, aveva tuttavia ritto a Milano lo stendardo dell'unità. Si avvezzavano a guardar quello, e Napoleone piuttosto nemico che protettore, per la sua ambizione smisurata e noncurante di storia o di popoli. Ma quando la spada dataci da lui fosse caduta a terra chi avrebbe osato impugnarla? A questo non pensavano. Si credevano forti, non sapendo che la forza riposava sopra il colosso e con lui si sarebbe fiaccata. Di cento che armeggiavano uno solo pensava, e agli altri novantanove sarebber cadute le armi e le braccia nel maggior cimento. Io non era spettatore, ma indovinava. Spiro frattanto scriveva lettere sempre più animate e misteriose; e ben m'accorgeva che qualche sublime idea fermentava nell'anima del greco mercante. Rigas il poeta aveva fondato la prima Eteria; e ottenutone per ricompensa il tradimento dai cristiani naturali alleati e il palo dai Turchi. Una seconda congiura si ordiva in Italia a profitto dei Greci, protetta da Napoleone. Sognavano di contrapporre al nuovo Carlomagno un nuovo impero di Bisanzio. Ed erano sogni, ma raccendevano le ceneri non mai spente dei greci vulcani e si cantava fra le montagne dei Mainotti: “Un fucile una sciabola e s'altro manca una fionda, ecco l'armi nostre. “Io vidi gli agà prosternati a' miei piedi; mi chiamavano loro signore e padrone. “Io avea rapito loro il fucile, la sciabola, le pistole. “O Greci, alto le fronti umiliate! Prendete il fucile la sciabola la fionda. E i nostri oppressori ci nomeranno ben presto loro signori e padroni.” Fra le orde selvagge degli Albanesi e le tribù pastorecce del Montenegro, ove è un insulto dire: — I tuoi son morti a lor letto! — serpeggiava il fuoco dell'entusiasmo. Alì Tebelen trionfava colla crudeltà e colla perfidia ma gli esuli dell'Ellade inspiravano a tutta Grecia il disegno di terribili rappresaglie. Quella non si manifestava ancora ma era forza verace; forza invincibile d'una nazione che ha meditato da lungo la propria sventura, ha accumulato gli insulti e aspetta paziente il momento della vendetta. Il vecchio Apostulos partì un'ultima volta per la Morea; la speranza di rigenerare la Grecia colla politica dei Fanarioti era svanita; egli si volgeva a speranze di guerra e di sangue coll'avidità del leone che si vede strappata la preda quando appunto credeva di addentarla. La morte lo colse a Scio, e Spiro me ne diede il tristo annunzio colle forti parole che gli ultimi desiderii di suo padre sarebbero stati lo spirito d'ogni sua impresa. Egli m'invitava sempre a trasferirmi colla famiglia a Venezia, ove diceva non mi sarebbe mancato né decoroso sostentamento né occasione di esser utile a me ed agli altri. Ma contento di quello che aveva, non arrischiava d'avventurar me e soprattutto i miei malcerti tentennamenti. Bruto leggendo qualche brano delle lettere di mio cognato si mordeva le labbra, e pestava rabbiosamente la sua gamba di legno. Io guardava l'Aquilina e il piccolo Donato che le pendeva alla mammella: non poteva distogliermi da quella pace. Successe la gran guerra dei moderni giganti. Napoleone entrò in Germania con cinquecentomila uomini, diede la posta a Dresda a imperatori e re più vassalli che alleati; e quando alcuni fra essi gli erano annunciati, diceva: — Aspettino. — Voleva chieder conto allo Czar della tiepida amicizia. Il mistico Alessandro chiamò all'armi la santa Russia, oppose alla guerra dell'ambizione la guerra del popolo; e quella miserabile cavalleria dei Cosacchi, come la chiamava Napoleone, fu il flagello e lo sgomento dell'invincibile esercito. Giunse a Mosca, vincitore sempre: ne fuggì vinto dal fuoco, dal gelo, dagli elementi insomma, ma non dagli uomini. Quarantamila italiani insanguinarono delle proprie vene le nevi della Russia per assicurare la ritirata agli avanzi dispersi della grande armata. Ma il bollettino che annunziava l'immenso disastro conchiudeva: “La salute di Sua Maestà non fu mai migliore.” Conforto bastevole alle vedove, agli orfani, alle madri orbate della prole! Egli è a Parigi a levar nuovi eserciti a rincalorire la devozione colla presenza, e il coraggio con nuove bugie. Ma la Francia non gli crede, la Germania insorge, gli alleati tradiscono. Egli ricade a Lipsia; abdica all'Impero di Francia al Regno d'Italia e si ritira all'isola d'Elba. Allora si vide cosa fosse il Regno d'Italia senza Napoleone, e a che i popoli sieno menati da istituzioni anche maschie senza libertà. Fu uno sgomento una confusione universale: un risollevarsi un combattersi di speranze diverse mostruose, tutte vane. A Milano si trucida un ministro, si abbattono le insegne dell'antico potere, si gavazza nella presente licenza non pensando al futuro. E il futuro fu come lo volevano gli altri; in onta alle rispettose e sensate domande della Reggenza provvisoria, in onta alle belle parole degli ambasciatori esteri. Il popolo non aveva vissuto; non viveva. Se io fossi costernato di questi avvenimenti che mi scotevano

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Argomenti: fiume calmo,    asiatico impero,    sublime idea,    nuovo impero,    forza invincibile

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