Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 45

Testo di pubblico dominio

Capitano mostrasse il brutto muso e s'arricciasse i baffi sull'uscio dell'osteria, nessuno gli capitò innanzi che osasse sfidare un sì minaccioso cipiglio. Fu un gran vanto pel Capitano; e quando i buli di Venchieredo tornarono verso sera dalla loro inutile caccia, sfiancati e trafelati come cani da corsa, egli non mancò di menarne scalpore. Gaetano gli sghignazzò sul muso con pochissima creanza; tantoché le tre Cernide di Fratta ne pigliarono sgomento e s'intanarono nell'osteria piantando il loro caporione. Ma costui era uomo di spada e di toga; per cui non gli riuscì schermirsi pulitamente dalle beffe di Gaetano: e finse di sapere allora soltanto che lo Spaccafumo se l'avesse battuta a cavallo traverso i campi. A udirlo lui, egli aspettava che quel disgraziato sbucasse di momento in momento dal suo nascondiglio, e allora gliel'avrebbe fatto pagar salato lo sfregio recato all'autorità del nobile giurisdicente di Venchieredo. Gaetano a codeste smargiassate rispose che il suo padrone era piucché capace di farsi pagare da sé: e che del resto dicessero al Cappellano che per la nottata dello Spaccafumo essi avrebbero pensato a saldare lo scotto. In quel dopopranzo nessuno pensò di moversi dal castello; e io e la Pisana passammo un'assai brutta e noiosa giornata litigando nel cortile coi figliuoli di Fulgenzio e del fattore. La sera poi, ad ogni visita che capitava, Germano dalla sua camera dava la voce; e solamente quando avevano risposto di fuori, egli abbassava il ponte levatoio perché avanzassero. Le catene rugginose stridevano sulle carrucole quasi pel rammarico di esser rimesse al lavoro dopo tanti anni di tranquillissimo ozio; e nessuno passava sullo sconnesso tavolato senza mandar prima un'occhiata di poca fede alle fessure che lo trapanavano. Lucilio ed il Partistagno si fermarono quella sera al castello più tardi del solito; e non ci volle meno delle loro risate per metter in calma i nervi della Contessa la quale per quella inimicizia tra lo Spaccafumo e il Conte di Venchieredo vedeva già in fiamme tutta la giurisdizione di Fratta. Il giorno dopo, che era domenica, furono ben altre novità in paese. Alle sette e mezza, quando la gente tornava dalla prima messa di Teglio, s'udì un grande scalpito di cavalli: e poco stante il signore di Venchieredo con tre de' suoi buli comparve sul piazzale. L'era un uomo rosso, ben tarchiato, di mezza età; nei cui occhi non si sapea bene se prevalessero la furberia o la ferocia; superbo poi ed arrogante più di tutto, e questo lo si indovinava dal portamento e dalla voce. Fermò il cavallo di pianta, e chiese con malgarbo ove abitasse il reverendo cappellano di Fratta: gli fu additata la canonica, ed egli vi entrò con piglio da padrone dopo aver affidato il palafreno al Gaetano che gli veniva alle coste. Il Cappellano aveva finito poco prima di farsi la barba; e stava allora in balìa della fantesca che gli radeva la chierica. La cucina era il loro laboratorio; e il pretucolo, riavuto un poco dalla paura del giorno prima, scherzava colla Giustina raccomandandole di tondergli bene il cucuzzolo, non come all'ultima festa, che tutta la chiesa erasi messa a ridere quand'egli s'avea tolto di capo la berretta quadrata. La Giustina dal suo lato ci adoperava tanto studio che non le rimaneva tempo da rispondere a quei motteggi; ma tondi di qua e radi di là, la chierica s'allargava come una macchia d'olio su quella povera testa da prete; e benché egli le avesse dato il precetto di non tenerla più grande d'un mezzo ducato, oggimai non v'avea più moneta di zecca che bastasse a coprirla. — Ah Giustina! Giustina! —— sospirava il Cappellano, palpandosi della mano i limiti della nuova tonsura — mi pare che siamo andati un po' vicini a quest'orecchio. — Non la ne dubiti! — rispondeva la Giustina che era una dabbene e maldestra contadinaccia sui trent'anni, sebbene ne dimostrava quarantacinque. — Se siamo vicini a quest'orecchio andremo poco lontani anche dall'altro! — Cospetto! mi vorresti pelar tutto come un frate! — sclamò il paziente. — Eh no, che io non l'ho mai pelato! — soggiunse la fantesca — e non lo pelerò neppure oggi. — No, no ti dico... lascia stare, basta! — Tutt'altro... mi lasci finire... stia zitto, non si mova per un momento. — Eh già! voi altre donne siete il diavolo! — mormorò il Cappellano — quando si tratta di andar innanzi a modo, ci persuadereste anche a lasciarci tosare... Chi sa cosa avrebbe aggiunto a quel verbo tosare; ma s'interruppe udendo sulla porta un sussurro come di speroni. Balzò allora in piedi, respinse la Giustina, si tolse dal collo lo sciugamani, e rivolgendosi tutto in un punto, si trovò faccia a faccia col signore di Venchieredo. Che viso che occhi che figura facesse allora il povero prete, voi lo potete immaginare! Rimase in quella malferma posizione di curiosità di paura di stupore nella quale lo avea colto il minaccioso apparimento del castellano; il mantino gli cascò a terra, e tra le falde del giubbone e le coscie faceva con le mani un certo armeggio che voleva dire: — Siamo proprio fritti! — Oh Cappellano amatissimo! come va la salute? — cominciò il feudatario. — Eh!... non saprei... anzi... s'accomodi... il piacer è il mio — balbettò il prete. — Non pare che sia un gran piacere — proseguì il castellano. — Ella ha il viso più sparuto del suo collare, reverendo. O forse, — continuò volgendo un'occhiata beffarda alla Giustina — son io venuto a distrarlo da qualche sua occupazione canonica? — Oh, si figuri! — bisbigliò il Cappellano — io mi occupo... Giustina, metti su dunque l'acqua pel caffè; oppure la cioccolata? Vuole la cioccolata, signor Conte?... Eccellenza? — Andate a curare i polli, ché ho da parlar da solo al reverendo — ripigliò il castellano rivolto alla Giustina. Costei non se lo fece dire due volte e sguisciò nel cortile tenendo ancora in mano il rasoio. Egli allora s'accostò al Cappellano, e presolo per un braccio, lo trasse fin sotto il focolare, ove senza pur pensarvi l'abate si trovò seduto sopra una panca. — Ed ora a noi — proseguì il castellano, sedendogli rimpetto. — Già una fiammata appena alzati non guasta la pelle neppur d'estate, dicono. Mi dica in coscienza, reverendo! Fa ella il prete o il contrabbandiere? Il poveretto ebbe un brivido per tutta la persona, e gli si torse talmente il grugno, che per quanto si racconciasse il collare si grattasse le labbra, non gli venne più fatto di rimetterlo in sesto per tutto il dialogo susseguente. — Son due mestieri ambidue e non faccio confronti — andò innanzi l'altro. — Domando solamente per mia regola quale ella intende esercitare. Pei preti ci sono le elemosine, i capponi e le decime: pei contrabbandieri le fucilate, le prigioni, e la corda. Del resto ognuno è libero della scelta; e nel caso io non dico che avrei fatto il prete. Solamente mi pare che i canoni debbano proibire il far un cumulo di queste due professioni. E lei cosa ne dice, reverendo? — Sì, signore... Eccellenza... son proprio del suo parere! — balbettò il prete. — Or dunque mi risponda a tono — riprese il Venchieredo — fa ella il prete o il contrabbandiere? — Eccellenza... ella ha voglia di scherzare! — Di scherzare io? Si figuri, reverendo!... Mi sono alzato all'alba; e quando ciò mi succede, non è già per voglia di scherzare!... Vengo a dirle netto e tondo che se il signor Conte di Fratta non è capace di tutelare gl'interessi della Serenissima, ci son qua io poco lontano, che me ne sento in grado. Ella accoglie in casa sua contrabbandi e contrabbandieri... No, no, reverendo!... non serve il diniegare col capo... Ci abbiamo anche i testimoni, e all'uopo si potrà citarlo in giudizio, o andare intesi colla Curia. — Misericordia! — sclamò il Cappellano. — Or dunque — proseguì il feudatario — siccome non mi garba per nulla a me la vicinanza di cotali combriccole, sarei a pregarla di cambiar aria a

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Argomenti: ponte levatoio,    tanto studio,    brutto muso,    cavallo traverso,    dopopranzo nessuno

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