Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 130

Testo di pubblico dominio

pensare alla Pisana, né al suo matrimonio. Gli affari della casa di Fratta s'imbrogliavano peggio che mai. La signora Contessa giocava sempre accanitamente, e quando non c'erano denari ne cercava al Monte di Pietà. La filosofia del Contino e la spensieratezza della Pisana non se ne incaricavano punto; e credo che Sua Eccellenza Navagero fosse destinato secondo essi a raccomodare tutti quegli sdrucii. Quello che mi maravigliava assaissimo si era la dimestichezza che continuava fra la Contessa e mio padre, benché questi non avesse allentato d'un punto le cordicelle della sua borsa e avesse attraversato con mille modi il disegno che covava la Contessa di un buon matrimonio fra me e la Pisana. Io aveva capito così in ombra che a mio padre non garbavano questi progetti, e che egli senza parlarmene indovinava la mia propensione e studiavasi di sviarla. Ma come aveva poi fatto a contrastare le mire della Contessa serbandosele in grazia lo stesso? Ecco quello che m'insegnai di chiarire; e scopersi bel bello che egli era stato il sensale dello sposalizio col cugino Navagero, e che la mia sfortuna io la doveva soprattutto a lui. Quanto a me, egli, il vecchio negoziante, aveva delle alte idee; una donzella ricchissima della famiglia Contarini gli sarebbe piaciuta per nuora, e non mancava di darmi qualche colpetto di tanto in tanto perché io la distinguessi fra le molte ragazze, le quali (bando alla superbia) non avrebbero sdegnato a quel tempo di unire il mio al loro nome. Tutti gli attori hanno sulle scene del mondo la loro beneficiata; e allora toccava a me. Il cittadino Carletto Altoviti, ex–gentiluomo di Torcello, segretario della Municipalità, prediletto del dottor Lucilio, e celebre in Piazza San Marco pei suoi begli abiti, per la sua disinvoltura, e sopratutto pei milioni del signor padre, non era un uomo da buttarlo in un canto. Io peraltro, raumiliato nella mia boria dalla ribellione della Pisana, non mi gonfiava più per cotali meriti; e in onta alle esortazioni di Amilcare non sapeva più sostenere il mio volo nel cielo sublime della libertà e della gloria. Quel cielo cominciava ad oscurarsi a minacciare tutto all'intorno grossi temporali. Mi fosse anche crollata la terra sotto i piedi, non ci mancava altro! Tuttavia siccome era uomo di cuore ed onorato, non trasandava le mie occupazioni al Palazzo Municipale. Soltanto mi piaceva più di rodermi di rabbia al fianco della Pisana che fiutare in quel palazzo la futura aura dogale pronosticatami da mio padre. In quel torno, quando le faccende di Venezia s'erano già acconciate alla servitù francese, e alla vaga aspettazione d'un avvenire che appariva sempre più triste, il dottor Lucilio comparve in casa della Contessa di Fratta. Costei temeva già da un mese quella visita e non avea più il coraggio di rifiutarla. Il dottore sedette adunque dinanzi alla Contessa con quel suo solito fare né umile né arrogante, e le chiese nei debiti modi la mano della Clara. La Contessa finse una gran sorpresa e di essere scandolezzata da una tale domanda; rispose che la sua figliuola era prossima a pronunciar i voti e non intendeva per nulla avventurarsi ai pericoli del mondo, da lei con tanta prudenza schivati; accennò da ultimo, ai diritti anteriori del signor Partistagno il quale seguitava sempre ad empire bestialmente Venezia delle sue lamentazioni sul sacrifizio imposto alla Clara, e certo non avrebbe consentito che ella uscisse di convento per isposarsi ad un altro. Lucilio rimbeccò netto e tondo che la Clara s'era promessa a lui prima che a nessuno, che i voti non erano ancor pronunciati, che le leggi democratiche non impedivano omai la loro unione per nessun conto, che la Clara aveva toccato la maggiore età, e che in quanto al Partistagno, egli se ne rideva come de' suoi sussurri che divertivano da un anno i crocchi d'ogni ceto. La Contessa soggiunse colle labbra strette e con un sorriso maligno che, giacché aveva messo in campo l'età omai adulta della Clara, poteva rivolgersi direttamente a lei, e che si congratulava di vederlo così fermo ne' suoi propositi, benché forse un po' tardivo a decidersi, e che gli augurava del resto che tutto andasse a seconda de' suoi desiderii. — Signora Contessa — conchiuse Lucilio — io son fermo com'ella dice ne' miei propositi, e lo fui sempre da molti anni a questa parte, benché volessi piuttosto in grazia loro capovolgere il mondo che violare una convenienza od implorare a mani giunte un favore. Ora che le circostanze ci hanno messo del pari, non esito a chiedere quello che altri è pronto a concedermi. Io sono ben fortunato che ella non voglia opporsi colla materna autorità alle più soavi ed ostinate speranze. — S'accomodi, s'accomodi pure! — aggiunse in fretta la Contessa. Pareva che così parlasse per paura di Lucilio, ma forse ella pensava alla madre Redenta e derogava fiduciosamente a lei quello scabroso incarico di difendere l'anima della Clara contro gli artigli del diavolo. La reverenda madre stava alle vedette da un pezzo; e il dottor Lucilio nell'accomiatarsi dalla Contessa non credette forse di esser ancora al bel principio dell'impresa. Tuttavia che fosse molto sicuro non lo vorrei affermare. Egli avea procrastinato di giorno in giorno per veder prima assicurato a Venezia il trionfo del suo partito e delle opinioni democratiche. Allora, forse prima d'ogni altro, fiutava il vento contrario; e superbo in volto ma disperato nell'animo s'affrettava a giovarsi di quegli ultimi favori della fortuna, per soddisfare il voto supremo del suo cuore. Vedeva capitombolare que' bei castelli in aria di libertà politica, di gloria, e di pubblica prosperità, e sperava salvarsi, aggrappandosi con un'àncora alla felicità domestica. Con tali pensieri pel capo s'avviò al convento di Santa Teresa, annunciò alla portinaia il proprio nome, e chiese di avere in parlatorio la contessina Clara di Fratta. La portinaia scomparve nel monastero e tornò indi a poco a riferire che la nobile donzella desiderava sapere la cagione della sua visita, che ella avrebbe cercato di soddisfarlo senza distogliersi dal raccoglimento claustrale. Lucilio trabalzò di sorpresa e di rabbia; ma vide sotto questa risposta una gherminella fratesca, e tornò a ripetere alla portinaia che un suo colloquio colla signorina Clara era necessario, indispensabile; e che la signorina doveva ben saperlo anche lei, e che nessuno al mondo poteva negargli il diritto di reclamarlo. Allora la conversa rientrò ancora; e tornò dopo pochi istanti a dire con faccia arcigna che la donzella sarebbe discesa indi a poco in compagnia della madre compagna. Questa madre compagna non andava giù pel gozzo a Lucilio, ma egli non era uomo da prendersi soggezione d'una monaca, e aspettò un po' irrequieto, misurando a gran passi il pavimento marmoreo, rosso e bianco del parlatorio. Passeggiava a quel modo da lunga pezza quando entrarono la madre Redenta e la Clara: quella col collo torto cogli occhi bassi colle mani incrocicchiate sullo stomaco, e i mustacchietti del labbro superiore più irti del solito: questa invece calma e serena come sempre; ma la sua bellezza erasi illanguidita pel chiuso del monastero, e l'anima ne traluceva più pura e ardente che mai, come stella da una nebbia che va diradando. Erano molti anni che i due amanti non si vedevano così dappresso; pure non diedero segno di gran turbamento; la loro forza, il loro amore stavano così profondi nel cuore, che alle sembianze non ne giungeva che un riflesso fioco e lontano. La madre Redenta cercava fra le folte siepaie delle sue ciglia un traforo per cui spiare senz'essere osservata; le sue orecchie vigilavano così spalancate che avrebbero sentito volare una mosca all'altro capo della stanza. — Clara — cominciò a dire Lucilio con voce forse più commossa ch'ei non voleva — Clara, io vengo dopo un lunghissimo tempo a ricordarvi quello che mi avete promesso; credo che anche per voi come per me questi lunghi anni non saranno stati

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