Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 89

Testo di pubblico dominio

si pentiva di essersi piegata a quel matrimonio con Leopardo, e non si schivava dal dirlo a tutti ed anco a lui, facendogli anche misurare la gran degnazione ch'era stata la sua a sposarlo. I corteggiamenti di Raimondo le davano a credere che, se avesse avuto pazienza di restar zitella, a ben più eccelso stato poteva aspirare che non a quella stentata condizione di moglie d'un possidentuccio di paese, e nuora e cognata per giunta di villanzoni duri, frugali, e bigotti. La dimora in casa le pareva omai intollerabile; stava sovente le giornate intere a Venchieredo, e se le domandavano ov'era stata non si degnava neppur di rispondere, ma squassava le spalle e tirava innanzi. Per poter comparire in gran pompa a Portogruaro, avea trovato la scusa di scegliersi a confessore il padre Pendola. Ma queste frequenti confessioni poco contribuivano, per quanto pareva, a migliorarla ne' suoi costumi. Fino con suo padre aveva smesso di usar le buone, come usano sempre i temperamenti fastidiosi, che cominciano ad irritarsi contro qualcuno, e finiscono poi col pesar sopra tutti. Gli serbava astio di aver consentito alle sue nozze con Leopardo, e se il dottor Natalino soggiungeva che era stata lei a volerlo, si rimbeccava come una vipera, gridando che è dovere dei padri soccorrere col loro senno il giudizio poco maturo delle figliuole, e che certo se ella avesse mostrato voglia di gettarsi nel pozzo avrebbe avuto la consolazione di sentirsi dare la prima spinta da suo padre. Toccava poi al padroncino quietarla da tali furie; e come vi riuscisse e con quanto onore del credulo Leopardo, io lo lascio pensare ai lettori. Infin dei conti tutto il paese mormorava di lei, e la famiglia tuttavia la sopportava con rassegnazione, e il povero marito non vedea cosa da lei desiderata che subito non gettasse foco dalle narici per ottenerla. Io fra me e me ritraeva dallo spettacolo di queste scene domestiche i miei ammaestramenti, i miei conforti; toccava con mano che la felicità è relativa, passeggiera, ma più ancor rara e fallace. Tornando poi a Fratta, se ben poco mi restava di tali conforti, avea se non altro passato qualche ora senza frugar colle unghie nelle mie piaghe; e qualcheduna mi si chiudeva lentamente: però ne restavano le cicatrici fino all'osso, e restava come quei barometri ambulanti nei quali ogni costola, ogni giuntura con doloruzzi e scricchiolamenti dà indizio del cambiar del tempo. Continuava così vagabondo e melanconico in quelle vacanze autunnali quando un giorno che aveva creduto intravvedere nella Pisana una cera più benigna del solito, me le misi dietro, la seguii fuori per l'orto fin sulla strada di Fossalta; e poi avvicinandomele di soppiatto passai il mio braccio nel suo chiedendole se mi avrebbe sopportato per compagno. Non avessi mai osato tanto! La giovinetta mi si voltò contro con tali occhi che parve mi volesse divorare! e poi volle dar sfogo alla sua bile con qualche grande ingiuria, ma la voce le rimase strozzata in gola, e si morse le labbra che ne spillò il sangue fino sul mento. — Pisana — le dissi — per carità, Pisana, non guardarmi in quella maniera! Ella strappò violentemente il braccio di sotto al mio e lasciò di mordersi le labbra perché omai la rabbia dava passo alle parole. — Cosa fate? cosa mi chiedete? — rispose ella disdegnosamente. — Non siamo più fanciulli mi pare! Ora è tempo di stare ciascuno al nostro posto, e mi maraviglio che voi, anziché eccitarmi a dimenticare questa massima, non me la rechiate a mente quando la troppa bontà me ne fa smemorare. Già lo sapete ch'io sono bizzarra e di primo impeto; or dunque tocca a voi freddo e ragionevole di natura ricordarvi chi siete e chi sono io!... Ciò detto ella mi volse le spalle e s'avviò verso l'ombra di alcuni salici dove Giulio Del Ponte l'aspettava collo schioppo in ispalla. Seppi poi che si avean data la posta colà, e che l'idea ch'io la seguissi per ispiarla avea ispirato alla Pisana quelle cattive parole. Non monta. Io ne patii allora fino in fondo all'anima. Tornai in castello che non sapeva se fossi morto o vivo; girava qua e là su e giù per le scale come l'ombra d'un dannato; entrai spensatamente in camera della Contessa vecchia. — Guardate se è la Clara! — disse costei alla sua infermiera, perché gli occhi oggimai non le servivano più che per piangere le lagrime senza conforto della vecchiaia. Io fuggii addolorato e stravolto; corsi fino disopra nel mio covacciolo ove tutto stava ancora disposto come quand'io n'era uscito un anno prima. Di là, dopo una lunga ora, passai nella camera di Martino. La mia devozione e l'incuria degli altri non avean messo un dito nelle cose lasciate dal vecchio. Per terra giacevano ancora alcuni chiodi avanzati al becchino che lo avea rinchiuso nella cassa; una fiala con non so qual cordiale disseccato e corrotto stava sulla tavola. Sul muro spenzolavano ancora sfogliati e polverosi rami di olivo appesivi da lui nell'ultima domenica delle Palme di sua vita. Mi gettai sopra il letto impresso ancora dalla giacitura del cadavere; là piansi amaramente, evocai la memoria di quel mio primo e si può dir solo amico; lo chiamai a nome mille e mille volte, lo pregai che si ricordasse di me e che scendesse anima o spettro a consolarmi della sua compagnia. Ma la fede titubava anche in queste invocazioni; io non sperava, io non credeva più. Solamente più tardi a forza di tormenti e di sforzi giunsi a rafforzarmi il cuore d'una credenza vaga, confusa, ma pur sicura ed intrepida, nelle cose spirituali ed eterne. Allora balbettava sì le orazioni nelle chiese, ma l'anima mia era arida come uno scheletro; la mente cadeva appassita dall'aria greve del mondo; il cuore scoraggiato si appigliava alla speranza del nulla come ad unico rifugio di pace. Questo interno scoraggiamento mi rendeva terribile ed amara perfin la memoria di quel buon vecchio che ad onta delle mie disperate invocazioni non avrei più potuto rivedere, e che dormiva nel sepolcro, mentr'io mi trangosciava nella vita. L'aria di morte che colà respirava, mi invase a poco a poco il cervello: le lagrime mi si stagnarono sulle ciglia, e l'occhio prese una guardatura vitrea e tormentosa ch'io m'ingegnava indarno di cambiare. Mi pareva che il fuoco della vita si ritraesse da me; sentiva il gelo, i fantasmi, i terrori dell'agonia che mi opprimevano; vi fu un istante che cambiato quasi in cadavere credetti di essere lo stesso Martino, e mi maravigliava di essere uscito dalla fossa, e aspettava e temeva che di momento in momento entrassero i becchini per riportarmivi. Questo pensiero strano e spaventoso mi si ingrandiva dinanzi come la bocca d'un abisso; non era più un pensiero, ma una visione, una paura, un raccapriccio. La luce della finestra mi percosse le pupille quasi assopite; forse in quel momento il sole sbucava da qualche nuvola e inondava la stanza cogli splendori del giorno: un desiderio d'aria, di quiete, d'annientamento s'impadronì di me. Sorsi barcollando, e mi trascinai al davanzale del balcone; ma lo strepito d'una seggiola che rovesciai nel movermi, mi svegliò un poco da quel sogno funereo. Del resto credo che mi sarei precipitato dalla finestra, e la mia vita sarebbe passata senza il lungo epitaffio di queste confessioni. Stesi la mano per appoggiarmi alla tavola, e toccai qualche cosa che mi restò fra le dita. Era un libricciuolo di devozione; quello appunto che il vecchio Martino soleva leggicchiare tutte le domeniche durante la messa; gli occhiali vi stavano ancora dentro in guisa di segno. Parve quasi che l'anima del mio amico fosse accorsa alle mie chiamate e s'apprestasse a rispondermi dalle pagine sdrucite di quel libro; gli occhi mi si inumidirono di nuovo, e mi abbandonai col capo nelle mani sopra la tavola, singhiozzando senza ritegno. Allora tornò se non la calma almeno la luce nel mio spirito, e a poco a poco ricordai come e perché fossi là venuto; e quali dolori mi aveano fatto cercare ricovero nella memoria d'un

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Argomenti: povero marito,    vecchio martino,    nome mille,    unico rifugio,    interno scoraggiamento

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