Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 82

Testo di pubblico dominio

giù un gnocco che aveva in gola e soggiunse: — Insomma, Dio sia benedetto che ci ha voluto bene; e siamo salvi da un gran pericolo. Mia moglie saprà che per ragioni forti, nascoste, stringentissime, di quel matrimonio non bisogna più parlarne, come d'una faccenda non mai sognata. Ella è prudente e si regolerà!...Cospettonaccio! ho paura che la si fosse fatta infinocchiare da quel benedetto padre Pendola! Qui egli si tacque e rimase colla bocca aperta un'altra volta perché ad un sberleffo del Senatore conobbe di esser per dire o di aver già detto qualche castroneria. — In confidenza — gli rispose il Frumier con quel piglio di maggioranza che ha il maestro sullo scolare — da certe frasi sfuggite al degnissimo padre io credo che non per nulla lo si avesse messo alle coste del giovine Venchieredo!... Potrebbe anche darsi che vedendo vostra moglie incapricciata di dare a costui la sua figliuola egli avesse fatto le viste di secondarla. Ma poi, mi capite, egli voleva bene a voi, egli voleva bene a me... e senza violare le convenienze... Insomma, quel colloquio da lui tenuto colla Clara... — Ma no! io era dietro l'uscio, e vi posso assicurare... — ripigliò il Conte. — Eh cosa sapete mai voi? — gli dié sulla voce il Senatore. — Son mille le maniere di dire una cosa colle labbra e farne capire un'altra o colla fisonomia o con certe reticenze... Il padre sospettava forse che voi e vostra moglie stavate ad ascoltare; ma del resto io vi posso assicurare, che se quel matrimonio non è andato, un gran merito ne viene a lui. — Oh benedetto quel caro padre! io lo ringrazierò... — Per carità! bella cosa che fareste! Dopo tutta la cura ch'ei prese per nascondersi e per far credere anzi ch'egli approvava il vostro disegno!! Davvero alle volte siete un bel furbo! Per questa volta tanto, chi fosse il più furbo non lo saprei dire. Il padre Pendola, avendo sentito a tavola il giorno prima la subita disapprovazione data dal Senatore al matrimonio di sua nipote col Venchieredo, benché lo avesse anch'egli approvato in fin allora, avea subodorato, se non la lettera da Venezia, certo qualche cosa di simile. Perciò con mezze parole con atti del capo e con altri mezzi di suo grado avea dato ad intendere al Senatore tutto il rovescio di quello ch'era stato. E questi polevandosi da tavola gli avea stretta la mano in modo misterioso, dicendogli: — Ho capito, padre; la ringrazio a nome dei miei cognati! Se il Senatore era furbo, e ne avea dato grandi prove nella sua lunga vita pubblica e privata, certo fu quello il caso di riscontrar vero il proverbio, che tutti abbiamo durante il giorno il nostro quarto d'ora di minchioneria. Non v'è poi anche ladro così astuto che non possa essere derubato da uno più astuto di lui. Finito il colloquio fra i due cognati e abbruciata diligentemente la lettera fatale, tornarono in sala da pranzo, discorrendo della Clara e della vera fortuna che la si potesse accasare in casa Partistagno. Il Conte aveva qualche scrupolo perché tutti i parenti di questo giovane non erano sul buon libro della Serenissima; ma il Senatore obiettava che non cadesse in soverchi timori, che erano parenti lontani, e che finalmente il giovine col suo contegno si dimostrava così ossequioso ai magistrati della Repubblica che gli avrebbe non che altro fatto onore anche da questo lato. — C'è poi un altro guaio; — soggiungeva il Conte — che per quanto si creda la Clara innamorata di lui ed egli di lei, non si vede mai che si disponga a manifestarsi. — Per questo ci penserò io — rispose il Senatore. — Quel giovine mi piace, perché avremmo bisogno di simil gente devota e rispettosa sì, ma forte e coraggiosa. Lasciatemi fare, egli si manifesterà presto. Per quel giorno si misero da un canto questi discorsi; e solamente la sera nel silenzio del letto nuziale il Conte s'arrischiò di accennare alla moglie d'un grave e misterioso pericolo da cui il rifiuto della Clara al Venchieredo li aveva salvati. La signora voleva saperne di più, e gracchiava di non volerne credere un'acca; ma non appena il marito ebbe bisbigliato il nome dell'Eccellentissimo Senatore Frumier, la si rifece credula e buona, né s'incaponì di più a indovinar quello che l'illustre cognato teneva avvolto nell'arcano impenetrabile. Le disse anche il marito che questi si mostrava persuaso dello sposalizio di Clara col Partistagno, e che si disponeva anzi ad adoperarsi perché il giovine venisse ad una domanda formale. I due coniugi ebbero un assalto comune di contentezza matrimoniale; la quale non voglio immaginarmi quanto oltre andasse. La miglior contentezza tuttavia fu per la Clara, la quale, senza ch'ella ne sapesse il perché, rimase dall'esser tormentata ed ebbe qualche giorno di tregua per poter corrispondere con nessuna superbia alle occhiate riconoscenti ed appassionate indirizzatele alla sfuggita da Lucilio. Intanto il Senatore avea mantenuto la sua promessa di ingegnarsi con ogni maniera perché il Partistagno domandasse finalmente la mano di Clara. La Correggitrice, che era la consigliera del giovine, fu beata di aiutar in ciò il nobiluomo Frumier, e seppe così bene commovere la bontà e la vanagloria che erano le doti principali di lui, da riescir nell'intento più presto che non si sperava. Il Partistagno s'impietosì di lasciare una donzella morir d'amore per lui, insuperbì di essere tenuto degno di diventar nipote di un senatore di Venezia, e confessò che egli pure era invaghito da gran tempo della donzella, e che soltanto una pigrizia naturale lo aveva trattenuto dal togliere quell'amore alla sua sfera platonica. Pronunciata quest'ultima frase il giovine sbuffò come per la gran fatica che vi avea messo ad architettarla. — Dunque animo, e facciamo presto — gli soggiunse la dama. Ed egli prese commiato da lei colle più sincere assicurazioni che lo stato della zitella gli faceva compassione e che si avrebbe dato ogni fretta. Ma i Partistagno nascevano tutti col cerimoniale in testa; e prima che il giovine avesse preparato tutti gli ingredienti necessari ad una domanda solenne di matrimonio passarono de' giorni assai. In quel frattempo veniva a Fratta, secondo il solito, e guardava la Clara come la castalda usa guardare il pollo d'India da lei tenuto in pastura pel convito pasquale. Un giorno finalmente, sopra due palafrenieri bianchi bordati d'oro e di porpora, due cavalieri si presentarono al ponte levatoio del castello. Menichetto corse a tutte gambe in cucina per dar l'annunzio della solenne comparsa, mentre i due cavalieri gravi e pettoruti s'avanzavano verso le scuderie. L'uno era il Partistagno col cappello a tre punte piumato, coi merletti della camicia che gli uscivano una spanna fuori dallo sparato, e con tanti anelli, spilli e spilloni che pareva addirittura un cuscinetto da spilli. Lo accompagnava un suo zio materno, uno dei mille baroni di Cormons, vestito tutto a nero, con ricami d'argento come portava la solennità del suo ministero. Il Partistagno rimase ritto a cavallo come la statua di Gattamelata, mentro l'altro scavalcava e consegnate le redini al cocchiere, entrava per la porta dello scalone che gli veniva spalancata a due battenti. Fu introdotto nella gran sala ma dovette aspettare qualche poco perché anche i Conti di Fratta sapevano il galateo e non volevano mostrarsi dammeno dei loro nobilissimi ospiti. Finalmente il Conte con una giubba tessuta letteralmente di galloni, la Contessa con venti braccia di nastro rosa sulla cuffia, gli si presentarono con mille scuse della involontaria tardanza. La Clara vestita di bianco e pallida come la cera veniva a mano della mamma; il Cancelliere e monsignor Orlando che avea fra mano il tovagliolo e lo nascose in una tasca dell'abito, stavano ai due lati. Successe un profondo silenzio con grandi inchini d'ambo le parti; pareva che si apprestassero a ballare un minuetto. Io, la Pisana e le cameriere che stavamo ad osservare dalle toppe delle porte, eravamo allibiti per

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Argomenti: profondo silenzio,    ponte levatoio,    letto nuziale,    misterioso pericolo,    assalto comune

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