Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 182

Testo di pubblico dominio

ciclo eroico; una tragedia che non ha altro paragone nella storia che l'eccidio della scuola pitagorica nell'istessa regione della Magna Grecia. Mario Pagano, Vincenzo Russo, Cirillo! tre luminari delle scienze italiane; semplici grandi come gli antichi. Morirono da forti sul patibolo. Eleonora Fonseca! una donna. Bevette il caffè prima d'ascender la scala della forca e recitò il verso Forsan haec olim meminisse juvabit . Federici maresciallo, Caracciolo ammiraglio! il fiore della nobiltà napoletana, il decoro delle lettere delle arti delle scienze in quella nobile parte d'Italia, erano condannati a perire per mano del boia... E gli Inglesi e Nelson tiravano i piedi! Restava Ettore Carafa. — Avea difeso fino all'ultimo la fortezza di Pescara. Consegnato dallo stesso governo repubblicano di Napoli ai reali, sotto sicurtà della capitolazione fu condotto a Napoli. Lo condannarono a morte. Il giorno ch'egli salì sul patibolo, io, Lucilio e la Pisana uscimmo furtivi da un bastimento portoghese sul quale ci eravamo rifugiati, ed ebbimo la fortuna di poterlo salutare. Egli guardò la Pisana, poi me e Lucilio, poi la Pisana ancora: e sorrise!... Oh benedetta questa debole umanità che con un solo di quei sorrisi può redimersi da un secolo di abiezione! Io e la Pisana chinammo gli occhi piangendo; Lucilio lo guardò morire. Egli volle esser decapitato supino per guardar il filo della mannaia, e forse il cielo, e forse quell'unica donna ch'egli aveva amato infelicemente come la patria. Nulla omai più ci tratteneva a Napoli. Raccomandata la vedova e i figliuoli del Martelli alla Principessa Santacroce, e fornitili d'una piccola pensione sul peculio lasciatomi da mio padre, salpammo per Genova, unica rocca oggimai dell'italiana libertà. Per la gloriosa caduta di Napoli, per la capitolazione di Ancona, per le vittorie di Suwarow e di Kray in Lombardia, tutto il resto d'Italia al principio del 1800 stava in poter dei confederati. CAPITOLO DECIMOTTAVO Il milleottocento. Sventura d'un gatto, e mia felicità amorosa durante l'assedio di Genova. L'amore mi abbandona e sono visitato dall'ambizione. Ma guarisco in breve dalla peste burocratica, e quando Napoleone si fa Imperatore e Re, io pianto l'Intendenza di Bologna, e torno di buon grado miserabile. Il nostro secolo (perdonate; dico nostro a nome di tutti voi; quanto a me ho qualche diritto anche sul passato, e quello d'adesso non lo tengo già più che colle punte delle dita), il nostro secolo o il vostro adunque che sia, è uscito nel mondo in una maniera molto bizzarra: volle farla tenere ai fratelli che lo avevano preceduto, e mostrare che per chi cerca novità ad ogni costo, la messe non manca mai. Infatti egli capovolse tutti i sistemi, tutti i ragionamenti che affaticavano i cervelli da cinquant'anni prima; e cogli stessi uomini si è messo in capo di raggiungere scopi perfettamente contrari. Abbondarono poi gli empirici che incamuffato di sillogismi il paradosso lo cambiarono in un perfetto accordo dialettico: ma io che non sono un giocoliero resterò sempre della mia opinione. Si fa, e si disfà; e disfacendo non si finisce per nulla ciò che s'era fatto: tuttaltro! Or dunque all'anno che finiva coi martirii repubblicani e colle vittorie dei confederati, ne successe un altro che distrusse a Marengo l'effetto di queste e di quelli, e recò in mano di Bonaparte reduce dall'Egitto le sorti d'Europa. Il Primo Console di trent'anni non era più il generale di ventisei che dava udienza radendosi la barba: egli andava già maturando fra sé e sé i paragrafi del cerimoniale di corte. Vi chieggo scusa di intromettervi in quest'ultima parte della mia storia col fastoso esordio delle ambizioni consolari, che finiranno poi al solito nel meschino racconto di poche e comuni fanciullaggini. Ma la luce mi attira, e bisogna che la guardi dovessi perderne gli occhi. Vi sarete anche accorti che aveva gran fretta di uscire da quel doloroso viluppo delle mie vicende napoletane. Tutte le volte che mi fermo a contemplare quelle tetre ma generose memorie l'anima mia spicca un tal volo che quasi le traversa tutte d'un balzo. Mi paiono racchiuse in un giorno, in un attimo solo, tanto sono diverse dalle altre che le precedettero e le seguirono. Non credo quasi possibile che chi ha sonnecchiato dieci anni della sua vita in una cucina, aspettandosi ogni tanto gridate e scappellotti e guardando grattare il formaggio, abbia poi vissuto un anno pieno di tante e così sublimi e svariate sensazioni. Sarei disposto a figurarmi che quello fu il sogno d'un anno ristretto in un minuto. Ad ogni modo Napoli è rimasto per me un certo paese magico e misterioso dove le vicende del mondo non camminano ma galoppano, non s'ingranano ma s'accavalcano, e dove il sole sfrutta in un giorno quello che nelle altre regioni tarda un mese a fiorire. A voler narrare senza date la storia della Repubblica Partenopea ognuno, credo, immaginerebbe che comprendesse il giro di molti anni; e furono pochi mesi! Gli uomini empiono il tempo, e le grandi opere lo allargano. Il secolo in cui nacque Dante è più lungo di tutti i quattrocento anni che corsero poi fino alla guerra della successione di Spagna. Certo, fra tutte le repubblichette che pullularono in Italia al fecondo alito della Francese, Cispadana, Cisalpina, Ligure, Anconitana, Romana, Partenopea, quest'ultima fu la più splendida per virtù e fatti repubblicani. La Cisalpina portò maggiori effetti per la lunghezza della durata, la stabilità degli ordinamenti, e fors'anco la maggiore o più equabile coltura dei popoli; ma chi direbbe a leggerla che la storia della Cisalpina abbraccia spazio maggiore di tempo che quella della Partenopea? Sarà fors'anco che la virtù e la storia si compiacciono meglio delle grandi e fragorose catastrofi. Intanto noi eravamo giunti a Genova; io e la Pisana assai maltrattati dal mal di mare, e guariti per sua bontà da ogn'altra preoccupazione, Lucilio sempre più cupo e meditabondo come chi comincia ma non vuol disperare. Le forze a lui gli crescevano secondo i bisogni; e proprio aveva un'anima romana, fatta per comandare anche dagli infimi posti, dono piuttosto comune e fatale agli Italiani che cagiona molte delle nostre sventure e qualcheduna delle glorie più luttuose. Le società secrete sono un rifugio all'attività sdegnosa e al talento imperativo di coloro che o sdegnano o non possono adoperarsi nell'angustissimo spazio concesso dai governi. Da un pezzo m'era accorto che Lucilio apparteneva, forse fin dagli anni d'Università, a qualche setta filosofica d'illuminati o di franchi muratori; ma poi mano a mano m'avvidi che le tendenze filosofiche piegavano al politico, e le combriccole della cessata Cisalpina, e le ultime vicende d'Ancona ne davano indizio. Lucilio teneva dietro con grandissima premura a cotali novelle, e alcune anche talvolta ne prediceva, con maravigliosa aggiustatezza. Fosse avvisato antecedentemente, o sincero profeta nol so: ma propendo a quest'ultima opinione, perché né egli usava discorrere di quanto gli veniva comunicato, né a que' tempi nella nostra condizione era molto agevole ricever lettere scritte di fresco. A Genova poi non entravano né fresche né salate: e le ultime notizie di Venezia le ebbimo da un prigioniero tedesco ch'era stato d'alloggio un mese prima presso il marito della Pisana, forse nelle camere stesse del tenente Minato. Questo signor tenente fu una delle più spiacevoli novità che trovai in Genova: la seconda fu la fame: perché il giorno dopo al nostro arrivo cominciò la flotta inglese lo strettissimo blocco, e in poche settimane ci ridusse alla caccia dei gatti. Aveva peraltro un gran conforto e questo era la protezione offertami in ogni incontro dall'amico Alessandro mugnaio, trovato pur esso a Genova e non più capitano, ma colonnello. Chi viveva a quel tempo andava innanzi presto. Il colonnello Giorgi non aveva ventisett'anni, sopravanzava del capo tutti gli uomini del suo reggimento, e comandava a

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