Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 195

Testo di pubblico dominio

posto che vorrai. Se poi ti quadra meglio un ministero privato, credo che la sua amministrazione sia abbastanza vasta per offrir impiego anche a te. — Ricordati che io non voglio rubar il pane a nessuno; e che se lo mangio intendo anche guadagnarmelo colle mie fatiche. — Eh! sta' pur cheto che non avrai scrupoli da questo lato. Tu credi forse che sia come nelle nostre fattorie del Friuli, dov'è comune la storia che il fattore si fa ricco a spalle del padrone tenendo le mani alla cintola! Eh, amico, a Milano se ne intendono! Pagano bene, ma vogliono esser serviti meglio: il ragioniere s'ingrasserà, ma il padrone non vuol diventar magro per questo. Lo so io come vanno qui le faccende! Questo disegno non mi sconveniva punto; e benché non avessi una fede cieca nelle onnipotenti raccomandazioni e nella splendida padrona del buon colonnello, pure, accortomi che solo non era buono a nulla, mi tenni contento di provar l'aiuto degli altri. Tornai a casa a spazzolarmi l'abito per la presentazione che dovea succedere l'indomani. Anch'io ricorsi alla splendidezza della mia padrona di casa per un poco di patina da lustrarmi gli stivali, e sciorinai sopra una seggiola l'unica camicia che mi rimaneva dopo quella che portava addosso. Nel candore di questa mi deliziava gli occhi, consolandoli della sparutezza del resto. Il mattino appresso venne l'ordinanza del colonnello ad avvertirmi che la signora aveva accolto benissimo la proposta, ma la desiderava ch'io le fossi presentato la sera, essendo quello giorno di gran faccende per lei. Io diedi un'occhiata agli stivali e alla camicia, lamentando quasi di non esser rimasto a letto per conservar loro l'originaria freschezza fino al solenne momento; poi pensando che di sera non vi si abbada tanto pel sottile, e che un ex–intendente doveva possedere ripieghi di vivacità e di coltura da far dimenticare la soverchia modestia del proprio arnese, risposi all'ordinanza che sarei andato a casa del colonnello verso le otto, ed uscii poco stante di casa. Venne il momento della colazione e lo lasciai passare senza palparmi il taschino; fu un'eroica deferenza per l'ora successiva del pranzo. Ma scoccata questa vi misi entro le mani e ne cavai quattro bei soldi che in tutti facevano, credo, quindici centesimi di franco. Non credeva per verità di esser tanto povero; e la quadratura del circolo mi parve problema molto più facile del pranzo ch'io doveva cavare da sì meschina moneta. E sì che non era stato Intendente per nulla, e di bilanciare le entrate colle spese doveva intendermene più che ogn'altro! — Adunque, senza abbattermi di coraggio, provai. — Un soldo di pane, due di salato ed uno d'acquavite per rifocillarmi lo stomaco e prepararlo alla visita della sera. — Per carità! cos'era mai un soldo di pane per uno che non avea toccato cibo da ventiquattr'ore! — Rifeci il conto; due soldi di pane, uno di cacio pecorino, e il solito di racagna. — Poi trovai che quel soldo di cacio era un pregiudizio, un'idea aristocratica per dividere il pranzo in pane ed in companatico. Era meglio addirittura far tre soldi di pane. E infatti entrai coraggiosamente da un fornaio; li comperai e in quattro morsicate furono messi a posto. M'accorsi con qualche sgomento di non sentire né una lontana ombra di sete, per cui facendo un torto alla racagna, mi provvidi d'un ultimo panetto e lo misi accanto agli altri. Dopo questo piccolo trattenimento i miei denti restavano ancora molto inquieti e razzolando le briciole che si erano fuorviate andavano fra loro dicendo con uno scricchiolio di costernazione: “Che sia finita la festa?” “È proprio finita!” risposi io, e sì che mi sentiva lo stomaco ancor più spaventato dei denti! — Allora mi presi un lecito trastullo d'immaginazione che m'avea servito anche molti giorni prima per ingannar l'appetito: feci la rassegna dei miei amici cui avrei potuto chiedere da pranzo, se fossero stati a Milano. L'abate Parini, morto da sei anni e leggero di pranzo anche lui; Lucilio, partito per la Svizzera; Ugo Foscolo, professore d'eloquenza a Pavia; de' miei antichi conoscenti non ne trovava uno: la padrona di casa dandomi la sera prima la patina aveva uncinato un certo suo nasaccio che voleva dire: “State indietro con questi brutti scherzi!” Rimaneva il colonnello Giorgi; ma vi confesso che mi vergognava: come anche dubito che mi sarei vergognato di tutti gli altri se fossero stati a Milano, e che sarei morto di fame piuttosto di farmi pagare un caffè e panna da Ugo Foscolo. Ad ogni modo era sempre una consolazione di poter pensare mentre pungeva l'appetito: così esaurito quel passatempo, mi trovai più infelice di prima e peggio poi quando passando per Piazza Mercanti m'avvidi che erano appena le cinque. — “Tre ore ancora!”. Temeva di non arrivar vivo al momento della visita, o almeno di dovervi fare un'assai affamata figura. Diedi opera a svagarmi con un altro stratagemma. Pensai da quante parti avrei potuto aver prestiti regali soccorsi, solo che li avessi desiderati. Mio cognato Spiro, i miei amici di Bologna, i trenta scudi del colonnello Giorgi, il Gran Visir... Per bacco! fosse la fame od altro, o un favore particolare della Provvidenza, quel giorno mi fermai più del solito su quell'idea del Gran Visir. Mi ricordai sul serio di avere nel taccuino il vaglia d'una somma ingente firmato da un certo giroglifico arabo ch'io non capiva affatto; ma la casa Apostulos aveva molti corrispondenti a Costantinopoli, e qualche autorità sui banchieri armeni che scannavano il sultano d'allora; corsi a casa senza pensar più all'appetito; scrissi una lettera a Spiro, vi inclusi il vaglia e la portai allegramente alla Posta. Ripassando per Piazza Mercanti, l'orologio segnava sette e tre quarti; m'avviai dunque verso l'alloggio del colonnello; ma la speranza del Gran Visir l'aveva lasciata alla Posta; e proprio sull'istante solenne fatale, tornava a farsi sentire la fame. Sapete cosa ebbi il coraggio di pensare in quel momento? Ebbi il coraggio di pensare ai grassi pranzi bolognesi dell'anno prima; e di trovarmi più contento così com'era allora a stomaco digiuno. Ebbi il coraggio di confortarmi meco stesso di esser solo e che il caso avesse preservato la Pisana dal farsi compagna di tanta mia inedia. Il caso? Questa parola non mi poteva passare. Il caso a guardarlo bene non è altro il più delle volte che una manifattura degli uomini: e perciò temeva non a torto che la smemorataggine, la freddezza, fors'anco qualche altro amoruzzo della Pisana l'avessero svogliata di me. “Ma ho poi ragione di lamentarmene?” seguitava col pensiero. “Se mi ama meno, non è giustizia?... Che ho fatto io tutto l'anno passato?”. Cosa volete? Trovava tutto ragionevole tutto giusto ma questo sospetto di essere dimenticato e abbandonato dalla Pisana per sempre, mi dava per lo meno tanto martello quanto la fame. Non era più il furore, la smania gelosa d'una volta, ma uno sconforto pieno d'amarezza, un abbattimento che mi faceva perdere il desiderio di vivere. Sbattuto fra questi varii dolori, salii dal signor colonnello il quale leggeva i rapporti settimanali dei capitani fumando come aveva fumato io quand'era intendente, e inaffiandosi a tratti la gola con del buon anesone di Brescia. — Bravo Carletto! — sclamò egli offrendomi una seggiola. — Versane un bicchiere anche per te, che mi sbrigo subito. Io ringraziai, sedetti e volsi un'occhiata per la stanza a vedere se ci fosse focaccia panettone o qualche ingrediente da maritarsi coll'anesone per miglior ristoro del mio stomaco. C'era proprio nulla. Io mi versai un bicchiere colmo raso di quel liquore balsamico, e giù a piena gola che mi parve un'anima nuova che entrasse. Ma si sa cosa succede da quel tafferuglio tra l'anima vecchia e la nuova, massime in uno stomaco affamato. Successe che perdetti la tramontana, e quando mi alzai per tener dietro al colonnello, era tanto allegro tanto parolaio quanto nel sedermi era stato grullo e

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Argomenti: ultimo panetto,    piccolo trattenimento,    lecito trastullo,    favore particolare,    somma ingente

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