Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 135

Testo di pubblico dominio

era della miglior lega. — A Venezia il padre Pendola ! — sclamai io come fra me. — Che cosa ci sia venuto a fare?... Non mi sembra né luogo né stagione per lui!... Leopardo sospirò sopra a queste mie parole, e soggiunse a voce sommessa che pur troppo i segni non mentiscono, e che soltanto le carogne attirano i corvi. Ciò dicendo eravamo giunti in Piazzetta ond'egli levando gli occhi scoperse quel miracoloso edifizio del Palazzo Ducale; e due lagrime gli corsero giù per le guance. — No, non pensiamo a ciò! — seguitò egli squassandomi il braccio con forza erculea. — Ci penseremo a suo tempo! — Indi riprese a darmi contezza delle cose di laggiù: come sua sorella Bradamante si era sposata a Donato di Fossalta, e Bruto suo fratello e Sandro il mugnaio, presi da furore eroico, s'erano assoldati in un reggimento francese. Questa novella mi sorprese non poco, ma in quanto a Sandro ne pronosticava bene e pensava che avrebbe fatto buona figura, come poi i fatti non mi diedero torto. Bruto, secondo me, si scalmanava troppo per riuscire un soldato perfetto; a menar le mani sarebbe andato di lena, ma quanto al voltare a destra e a sinistra ne sperava poco assai. Leopardo mi toccò del gran cordoglio provato da suo padre per quella determinazione; il povero vecchio aveva perduto la memoria e le gambe, e le faccende del Comune volgevano a caso come Dio voleva. Già del resto l'egual guazzabuglio c'era in tutto; e quell'interregno di ogni governo, quell'intralciarsi quel contrastarsi di tre o quattro giurisdizioni, impotenti le une per vecchiaia e per debolezza, tiranniche le altre per l'indole loro arbitraria e militare, opprimeva la gente per modo che pregavano concordemente perché venisse un padrone solo a cacciar via quei tre o quattro che li angariavano senza esser capaci o interessati a difenderli. Municipalità cittadine, congregazioni comunali e foresi, tirannia feudale, governo militare francese, non si sapeva dove dar il capo per ottenere un briciolo di giustizia. Perciò anche in quel continuo affaccendarsi di reggitori la giustizia privata reputava necessario l'intervenire; le violenze, le risse, gli ammazzamenti erano giornalieri; la forca lavorava a doppio, e i coltelli avevano il loro bel che fare lo stesso. Solamente dove risiedeva un quartiere generale duravano perpetue le feste e il buon umore; colà gli ufficiali facevano scialo delle cose rapite nel contado e nei paesi minori; il popolaccio gavazzava nell'abbondanza d'ogni ben di Dio, e le signore civettavano per vezzo di moda coi lindi francesini. Qual maggior comodità di diventar patrioti e liberali, facendo all'amore?... Succedeva dappertutto come a Venezia: si guardavano in cagnesco alle prime per finire coll'abbracciarsi da ottimi amici. I vizii comuni sono mezzani ad ogni viltà: e vi furono molte che senza avere il temperamento subitaneo e il marito decrepito della Pisana, s'aggiustarono come lei con qualche tenentino di linea per fuggir la mattana di quel tempo provvisorio. Lo so che erano difetti e vigliaccherie ereditate dai padri e dai nonni; ma non bisogna poi passarle buone perché le sono ereditate; s'eredita anche la scrofola che non è poi una giuggiola da tenersela cara. Quanto alla democrazia e al culto della ragione erano piucché altro pretesti cacciati innanzi dalla paura e dalla vanità; infatti chi ballò allora intorno all'albero della libertà, ballò anche al seguente carnevale nelle sale del Ridotto in barba al trattato di Campoformio, e s'insudiciò più tardi i ginocchi dinanzi al nume di Austerlitz. Credo che festa popolare più funebre e grottesca di quella nella quale si piantò in piazza San Marco l'albero della libertà non la si possa vedere al mondo. Dietro a quattro briachi, a venti pazzerelle che saltavano, si sentivano strascicate sul lastrico le sciabole francesi; e i Municipali (io in mezzo a loro) stavano ritti e silenziosi sulla loro loggia, come quei vecchi cadaveri appena disotterrati che aspettano un solo buffo d'aria per cadere in polvere. Leopardo mi accompagnò a quella festa, e si morsicava le labbra come un arrabbiato. In una loggia rimpetto a noi sua moglie sedeva vicino a Raimondo, mettendo in mostra tutte le smorfie veneziane che aveva saputo aggiungere alle sue in una settimana di tirocinio. Passavano i giorni tristi monotoni soffocanti. Mio padre era tornato grullo come un turco; egli non parlava che colla sua serva a sgrugnate e a monosillabi; sbatteva la saccoccia delle doble, e non mi seccava più coi panegirici della Contarini. I Frumier stavano imbucati nel loro palazzo quasi per paura di qualche aria pestilenziale; soltanto Agostino compariva qualche volta al caffè delle Rive per recitare altamente il suo credo giacobinesco. Egli era fra quelli che credevano alla durata del dominio francese; e speravano racquistare per amore o per forza un grado almeno della perduta importanza. Lucilio passava come un'ombra da casa a casa: si vedeva il medico che non tien più conto né della propria vita né dell'altrui, e attende a guarire più per abitudine che per convinzione di operar così qualche bene a vantaggio dell'umanità. Leopardo diventava sempre più cupo e taciturno; l'ozio finiva di consumargli lo spirito; egli non faceva pompa dei proprii dolori, ma si accontentava di morire oncia ad oncia. Raimondo e la Doretta non gli badavano punto; diventavano sfrontati a segno da recitare in sua presenza qualche scenetta di gelosia. Egli si cacciava allora la mano nel petto e la traeva colle unghie lorde di sangue; tuttavia le rughe marmoree della sua bella fronte coperta di nuvole non si risentivano guari di nulla. Unico ristoro gli era il versar nel mio seno non i suoi dolori ma le fatali rimembranze della perduta felicità. Allora rompeva per breve tempo il suo silenzio da certosino; le sue parole somigliavano un canto su quelle labbra pure e fervorose; ricordava con dolore infinito, con amara voluttà, senz'ombra di odio e di rancore. Quello invece che smaniava daddovero e sempre era Giulio Del Ponte. In lui era risuscitata con maggior violenza quella malattia che l'avea menato in fil di morte al tempo delle civetterie della Pisana col Venchieredo. Stavolta peraltro egli pareva più debole, più affranto, e il suo competitore a tre doppi più bello, più spensierato, più certo della vittoria. Io non andava mai in casa Navagero, perché ne avrei avuto troppo grave angoscia, ma me ne dava novelle Agostino Frumier. Quello sciagurato di Giulio si ostinava indarno a posseder un cuore che gli sfuggiva sempre più. Ricominciava la lotta del cadavere col vivo; lotta spaventevole che prolunga i dolori e lo spavento dell'agonia senza dare né il desiderio né la pazienza della morte. Il suo volto, scarnato dall'etisia, contraffatto dal dolore e dalla rabbia, metteva raccapriccio: lo spirito gli si torceva impotente e furioso in un perpetuo giro di pensieri truci ed orribili; se mai si sforzava di mostrar qualche brio, i suoi occhi il sorriso la voce si contrapponevano alle parole. Il fiato gli mancava, il discorso gli si ingarbugliava per l'idea dolorosa e inesorabile che lo preoccupava. La stizza di non poter essere piacevole lo guastava peggio che mai, e gli spremeva dalla fronte il vero sudore della morte. Il gaio officiale còrso si prendeva beffe di quello spettro che si frammischiava coi suoi ossi sporgenti coi capelli irti e le mani tremolanti alla loro allegria. La Pisana non si accorgeva di lui, o accorgendosene lo trovava così brutto e ingrugnito che le scappava ogni volta di guardarlo due volte. Esso le avea piaciuto per la sua vivacità e la magia de' modi, e la copia e l'incanto della parola; svanito tutto ciò, non discerneva più il Giulio d'altri tempi. Fosse anche restato tal quale, gli è assai dubbio se il bel officiale non le lo avrebbe fatto dimenticare; ad ogni modo non lo curava più, e non lo amava per nulla; forse anco non lo avea amato, e da ultimo non voglio ficcarmi addentro in tante

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