Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 35

Testo di pubblico dominio

pel dottore: ma prima scese in cucina a rubarmi un po' di brodo; impresa nella quale, protetto dall'oscurità del locale, riuscì a meraviglia; e io bevetti il brodo con gran pazienza benché avessi dentro una grandissima voglia di panetti, e poi m'adagiai sotto le coltri promettendo che avrei cercato di sudare. Credo che tra le botte della testa, la sfinitezza della fatica e del digiuno, e il sudore promossomi da quella bevanda calda, io arrivai a compormi una bellissima febbre; tantoché quando il signor Lucilio capitò di lì a un'ora, la fame erami passata e le era succeduta una sete ardentissima. Mi tastò il polso, mi guardò la lingua, e mentre mi domandava conto di quelle graffiature che mi screziavano la fronte, sorrise in modo più benevolo di prima, udendo nel corritoio il fruscìo d'una gonna. La Clara entrò nel bugigattolo per ascoltare dal medico la ragion del mio male e confortarmi con dire che la Contessa in vista della mia malattia non si sarebbe ostinata nel castigarmi tanto severamente, e purché dicessi a lei la verità circa alla sera prima, mi avrebbe anche perdonato. Io le risposi che la verità l'aveva già detta, e sarei tornato a ripeterla; e che se pareva strano a loro che andando a zonzo senza saper dove avessi passato quasi un'intera giornata, lo stesso sembrava anche a me, ma non sapeva che farci. La Clara allora m'interrogò su quel luogo così maraviglioso e così pieno di luce di sole e di colori ove diceva essere stato; e ripetutane ch'io n'ebbi con grand'enfasi la descrizione, la soggiunse che forse Marchetto aveva ragione e che io poteva essere stato al Bastione di Attila, che è un'altura presso la marina di fianco a Lugugnana dove la tradizione paesana vuole che venendo da Aquileia abbia tenuto suo campo il re degli Unni prima di essere incontrato dal pontefice Leone. Peraltro da Fratta a là correvano sette buone miglia pei traghetti più spicci, e non sapeva capacitarsi che nel ritorno non mi fossi smarrito. E la mi disse per giunta che quella tal bella cosa immensa azzurra e di tutti i colori nella quale si specchiava il cielo era per l'appunto il mare. — Il mare! — io sclamai — oh qual felicità menar la propria vita sul mare! — Davvero? — disse il signor Lucilio. — Eppure io ci ho un cugino che gode da molti anni di questa felicità e non ne è gran fatto contento. Egli afferma che l'acqua è fatta pei pesci e che un gran controsenso fu quello dei vecchi Veneziani di piantarvisi entro. — Sarà un controsenso ora; ma non lo era una volta; — soggiunse la Clara — quando al di là del mare c'eran Candia la Morea e Cipro e tutto il Levante. — Oh per me, — ripresi io — starei sempre sul mare senza occuparmi di quello che possa essere di là. — Ma intanto pensa a star ben coperto e a guarire, demonietto — aggiunse il signor Lucilio. — Martino ti porterà dalla spezieria una boccettina d'acqua, buona come la conserva, e tu la prenderai un cucchiaio per volta ad ogni mezz'ora, hai capito? — Intanto ti aggiusteremo le cose colla mamma pel minor danno, — continuò la Clara — e giacché mi hai ripetuto che quella era la verità come l'avevi detta ieri sera, io spero che la ti perdonerà. Lucilio e la Clara uscirono, Martino uscì con loro per andarne alla spezieria; io mi rimasi col mio sudore colla mia sete e con una voglia sfrenata di veder la Pisana, ché allora non mi avrebbe più importato se mi perdonavano o meno. Ma la fanciulletta non si fece vedere, e soltanto nel cortile udii la sua voce e quella degli altri ragazzi che strimpellavano ne' loro giochi; e siccome io aveva paura di esser veduto o prevenuto da Martino, o denunziato da alcuno dei fanciulli, non mi cimentai a vestirmi e scender nel cortile come ne aveva quasi volontà. Io stetti coll'orecchie intese e il cuore in tumulto che mi impediva quasi di udire. — Tuttavia di lì a un'ora intesi la Pisana gridare a perdifiato: — Martino, Martino, come sta dunque Carletto? Martino dovette aver capito e le avrà anche risposto, ma io non ne intesi nulla: solamente lo vidi entrar di lì a poco colla boccetta della medicina e mi disse che la Contessa lo aveva incontrato per la scala e domandatogli se era vero che mi fossi spaccata la fronte contro la parete per la disperazione. — È vero questo? — soggiunse il buon Martino. — Non so — io gli risposi — ma ieri sera era così scaldato che posso aver fatto delle sciocchezze senza che ora me ne ricordi. — Non te ne ricordi? — soggiunse Martino che poco m'aveva capito. — No, no, non me ne ricordo — ripresi io. Ed egli non rimase affatto contento d'una tale risposta poiché gli pareva a lui che dopo aversi conciato il muso a quel modo per un pezzo dovesse durarne buonissima memoria. La medicina fece il suo effetto, migliore forse e più improvviso che nessuno si sarebbe aspettato, perché il giorno stesso m'alzai; e quanto al castigo inflittomi dalla Contessa non se ne parlò più. Gli è vero peraltro che non si parlò neppure di ristabilirmi nella camera della Faustina, e che il mio canile rimase definitivamente nell'appartamento di Martino. Come si può immaginare, la voglia di riveder la Pisana dopo quell'improvvisata della notte scorsa ci ebbe un gran merito nella mia repentina guarigione; e quando discesi in cucina, mia prima cura fu quella di cercarla. La famiglia avea finito il pranzo allora allora; e Monsignore incontrandomi per la scala mi accarezzò il mento contro ogni suo solito, e mi guardò le ammaccature della fronte, le quali poi non erano quel gran malanno. Egli mi disse che non doveva essere quella peste che mi credevano se il dolore di esser reputato bugiardo mi faceva dare in simili violenze contro me stesso; ma mi raccomandò di usar più discrezione in avvenire, di offerire a Dio le mie tribolazioni, e di imparare la seconda parte del Confiteor. Nelle benigne parole di Monsignore io riconobbi il buon animo della Clara, la quale aveva dato quell'edificantissima ragione delle mie stramberie, e così, se non il perdono completo, mi fu almeno concessa una clemente dimenticanza. Seppi in seguito da Marchetto che il signor Lucilio mi aveva dipinto come un ragazzo molto timido e permaloso, facile ad esser abbattuto anche nelle forze e nella salute da un qualunque dispiacere; e tra lui e la Clara tanta malleveria diedero della mia sincerità che la Contessa non volle insistere ad accusarmi di doppiezza. Peraltro ella si tolse la briga di interrogare Germano; ma questi, imbeccato forse da Martino, rispose che avea bensì udito la notte prima lo scalpitar d'un cavallo, ma buona pezza dopo il mio ritorno a Fratta, sicché non era possibile che con quel cavallo io fossi venuto. Allora la testimonianza di Fulgenzio fu lasciata là, ed io rimasi colla mia pace, e non caddi più nella necessità di dover mentire per delicatezza di coscienza. Debbo tuttavia soggiungere che quella che parrà a taluni frivola e cocciuta ostinazione di fanciullo, a me sembrò fin d'allora e la sembra tuttavia una bella prova di fedeltà e di gratitudine. Fu allora la prima volta che l'animo mio ebbe a lottare fra piacere e dovere; né io titubai un istante ad appigliarmi a quest'ultimo. Se il dovere in quel caso non era poi tanto stringente, poiché né la raccomandazione dello sconosciuto pareva fatta sul serio, né io avea promesso nulla, né potea capire a che gli potesse giovare il mio silenzio sopra un fatto così comune com'è quello del passaggio d'un uomo a cavallo, tuttociò prova a tre tanti la rettitudine de' miei sentimenti. Fors'anco quel primo sacrificio, cui mi disposi tanto volonterosamente e per sì frivolo motivo, diede alla mia indole quell'avviamento che non ho poi cessato dal seguir quasi sempre in circostanze più gravi e solenni. A lungo si è disputato se la fortuna faccia l'uomo o se l'uomo governi la fortuna. Ma nella disputa non si badò forse troppo fin qui a distinguere quello che è, da quello che dovrebbe essere. Certo la filosofia solleva

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