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Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 69ricaduto nella solita indifferenza stupiva a tutto potere di quei caldi intervalli d'entusiasmo, di quel furor battagliero di contese e di alterchi da cui si sentiva trasportato come uno scolaretto. Accagionava di ciò l'esempio e la vicinanza dei più giovani; era invece la fiamma della vita, che rattizzata in lui da un potente prestigiatore, non potendo scaldargli le fibre già agghiacciate del cuore, gli empiva il capo di fumo e gli infervorava la lingua. “Si crederebbe quasi ch'io prendessi sul serio le sofisticherie che s'impasticciano per passar l'ora”, andava egli pensando mentre aspettava la cena nella classica poltrona “e sì che da quarant'anni io non ho odorato la polvere venerabile del collegio! Sarà forse vero che gli uomini non son altro che eterni fanciulli!”. — Eterni, eterni! — mormorava il vecchio accarezzando le guance flosce e grinzose — volesse il Cielo! Dopoché Lucilio era sopraggiunto a sbraciare l'entusiasmo dei cortigiani del Senatore, coloro che sedevano ai tavolini del giuoco, le signore principalmente, soffrivano delle frequenti distrazioni. Quel chiasso continuo di domande, di risposte, di accuse e di difese, di scherzi, di risate, di esclamazioni e di applausi moveva un poco la curiosità, e, diciamolo, anche l'invidia dei giocatori. I divertimenti del quintilio e le commozioni del tresette erano di gran lunga meno vibrate; quando un cappotto aveva originato le solite ironiche congratulazioni, le solite minacce di rivincita, tutto finiva lì, e si tornava come rozze di vettura al monotono andare e venire della partita. Invece di quel cantone della sala la conversazione s'avvicendava sempre varia allegra generale animata. Gli orecchi cominciarono a tendersi verso colà, e gli occhi ad invetrarsi sulle carte. — Ma signora, tocca a lei. Ma dunque non ha capito la sfida! — Scusi, ho un po' di mal di capo; — ovvero: — Non ho badato; aveva la testa via! — Così si bisticciavano da un lato all'altro dei tavolini, e le colpevoli si rimettevano, sospirando a giocare. Lucilio ci entrava non poco in tutti quei sospiri, ed egli lo sapeva. Sapeva l'effetto da lui prodotto sulla conversazione del Senatore, e se ne riprometteva di rimbalzo una generosa gratitudine da parte della Clara. L'amore ha un orgoglio tutto suo. Da un lato si cerca d'ingrandire per piacere di più, dall'altro s'insuperbisce di veder piacere a molti quello che piace e si studia solamente di piacere a noi. Giulio Del Ponte, che forse al pari di Lucilio aveva fra le signore qualche motivo per voler rendersi piacevole, aguzzava il proprio ingegno per tener bordone al compagno. E il resto della compagnia rimorchiata dai due giovani gareggiava di prontezza e di brio, nei più gravi ragionamenti che si potessero instituire sopra alcune frasi della “Gazzetta di Venezia”, la mamma anzi l'Eva di tutti i giornali. Infatti i Veneziani di quel tempo dovevano inventare e inventarono la Gazzetta: essa fu un parto genuino e legittimo della loro immaginazione, e solamente ad essi si stava ad aprire la biblioteca delle chiacchiere. Il Senatore riceveva ogni settimana la sua gazzetta sulla quale si facevano grandi commenti; ma anche in questo lavorio di finitura e d'intarsio Lucilio si lasciava indietro tutti gli altri di molto. Né alcuno sapeva come lui cercar le ragioni all'un capo del mappamondo di ciò che succedeva all'altro capo. — Che colpo d'occhio avete, caro dottore! — gli dicevano meravigliati. — Per voi l'Inghilterra e la China sono a tiro di canocchiale, e ci trovate tra esse tante relazioni quanto fra Venezia e Fusina! — Lucilio rispondeva che la terra è tutta una palla, che la gira e la corre tutta insieme, e che dopo che Colombo e Vasco de Gama l'avevano rifatta come era stata creata, non si doveva stupirsi che il sangue avesse ripreso la sua vasta circolazione per tutto quel gran corpo dal polo all'equatore. Quando si navigava per cotali discorsi il Senatore chiudeva un occhio socchiudeva l'altro e così osservava Lucilio rimuginando certi giorni passati quando quel giovinastro avea lasciato qualche macchia nera sul libro degli Inquisitori di Stato. Forse allo scrupoloso veneziano passavano allora pel capo dei lontani timori; ma d'altra parte era qualche anno che Lucilio non si moveva da Fossalta; la sua vita era quella d'un tranquillo benestante di campagna; gli Inquisitori dovevano essersi dimenticati di lui ed egli di loro e delle ubbie giovanili. Il dottor Sperandio, in visita diplomatica all'eccellentissimo patrono, lo aveva rassicurato confessandogli che egli non erasi mai lusingato per l'addietro di trovare nel figliolo la docilità e la calma che dimostrava infatti colla sua vita modesta e laboriosa. — Oh, se volesse consentire a laurearsi! — sclamava il vecchio dottore. — Senza fermarsi a Venezia, intendiamoci bene! — soggiungeva con frettoloso pentimento. — Ma, dico io, se giungesse a laurearsi, qual clientela bella e pronta gli avrei preparato! — Non mancherà tempo, non mancherà tempo! — rispondeva il Senatore. — Ella intanto provveda che suo figlio si assodi bene, che dia un calcio a tutte le bizzarrie, che conservi sì il buon umore e la vivacità, ma non pigli sul serio le fantasie letterarie degli scrittori. La laurea verrà un giorno o l'altro, e di ammalati non ne mancheranno mai ad un dottore che dia ad intendere di saperli guarire. — Morbus omnis, arte ippocratica sanatur aut laevatur — soggiungeva il dottore. E se la conversazione successe di dopopranzo, aggiunse certamente una mezza dozzina di testi; ma non lo so di sicuro e voglio sparagnarne l'interpretazione ai lettori. Lucilio era adunque diventato, come dice la gente bassa, il cucco delle donne. Queste vanerelle, in onta alle capricciose leggi d'amore, si lasciano facilmente accalappiare da chi fa in qualche maniera una prima figura. Nessun piacere sopravanza forse quello di essere da tutti invidiate. Ma Lucilio un cotal piacere non lo permetteva a nessuna di loro. Era gaio estroso brillante nelle sue rade escursioni fra le tavole del giuoco; indi tornava a capitanare la conversazione del Senatore senza aver fatto vedere neppur la punta del fazzoletto ad alcuna di quelle odalische. Soltanto, passando o ripassando, trovava modo d'inondare tutta la persona di Clara con una di quelle occhiate che sembrano circondarci, come le salamandre, di un'atmosfera di fuoco. La giovinetta tremava in ogni sua fibra a quell'incendio repentino e soave; ma l'anima serena ed innocente seguitava a parlarle negli occhi col suo sorriso di pace. Pareva che una corrente magnetica lambisse co' suoi mille pungiglioni invisibili le vene della donzella, senzaché potesse turbare il profondo recesso dello spirito. Più insormontabile d'un abisso, più salda d'una rupe s'interponeva la coscienza. La modestia, più che il luogo inosservato ove costumava sedere, proteggeva la Clara [dalle curiose indagini] delle altre signore. Sapeva ella farsi dimenticare senza fatica; e nessuno poteva sospettare che il cuore di Lucilio battesse appunto per quella che meno di tutte si affaccendava per guadagnarselo. La signora Correggitrice non usava tanta discrezione. Fino dalle prime sere le sue premure, le sue civetterie, le sue leziosaggini pel desiderato giovine di Fossalta aveano dato nell'occhio alla podestaressa, e alla sorella del Sopraintendente. Ma queste due alla lor volta s'eran fatte notare per la troppa stizza che ne dimostravano: insomma Paride frammezzo alle dee non dovette essere più impacciato che Lucilio fra quelle dame; egli se ne spicciava col non accorgersi di nulla. V'avea peraltro un'altra signorina che forse più di ogni altra e della Correggitrice stessa teneva dietro ai gloriosi trionfi di Lucilio, che non distoglieva mai gli occhi da lui, che arrossiva quand'egli se le avvicinava, e che non aveva riguardo di avvicinarsi a lui essa medesima per toccar il suo braccio, sfiorar la sua veste, e contemplarlo meglio negli occhi. 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