Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 154

Testo di pubblico dominio

si sarebbe immaginato ch'ella abitasse con me, mentre io stesso era creduto a quei giorni ben lontano dalle lagune. La nostra zingara era stata incorruttibile; a qualche sbirro travestito che era venuto a chieder conto dei padroni di casa, ell'aveva risposto che da gran tempo mancavano da Venezia, e così non ci avevano seccato più. Sapendo che mio padre s'era imbarcato pel Levante, mi giudicavan partito con lui, o con gli altri disgraziati che aveano cercato una patria nelle tranquille città della Toscana o nelle tumultuanti provincie della Cisalpina. La scoperta fatta da Raimondo Venchieredo mise la sbirraglia sulle mie tracce. Egli ne parlò a suo padre come d'una curiosità; il vecchio volpone ne tenne conto come d'un grasso guadagno, e così, dopo consultatosi col reverendo padre Pendola, decise di farsi un merito presso il Governo col dipingermi per un pericoloso macchinatore appiattato a Venezia e disposto a Dio sa qual colpo disperato. La mia convivenza con quella furiosa eroina, che avea fatto parlar tanto il volgo e gli sfaccendati, aggiungeva nerbo all'accusa. Infatti una bella mattina che sorseggiava tranquillamente il caffè pensando alla maniera di prolungar piucché fosse possibile l'utilissimo servizio di sette o otto ducati che mi rimanevano, sentii un furioso scampanellare alla porta, e poi una confusione di voci che gridavano rispondevano s'incrociavano dalla finestra alla calle, e dalla calle alla finestra. Mentre porgeva l'orecchio a quel fracasso, udii un grande strepitio come d'una porta sgangherata a forza, e poi successe un secondo colpo più forte del primo, e un gridare e un tempestare che non finiva più. Stavamo appunto io e la Pisana per uscire ad osservare cosa succedeva, quando la nostra zingara si precipitò nella stanza col naso insanguinato, la veste tutta a brandelli, e un'enorme paletta da fuoco tra mano. Era quella che mio padre adoperava per far i profumi secondo la usanza di Costantinopoli. — Signor padrone — gridava ella, sfiatata pel gran correre — ne ho fatto prigioniero uno che è di là chiuso in cucina colla faccia spiattita come una torta... ma fuori ne sono altri dodici... Si salvi chi può... Vengono per arrestarlo... Dicono che l'è un reo di Stato... La Pisana non la lasciò continuare; corse a chiudere la porta, e adocchiando la finestra che dava sul canale, cominciò a dirmi che badassi a me, a scappare, a salvarmi, che questo urgeva più di tutto. Io non sapeva che fare, e un salto dalla finestra mi parve la maniera più commoda di cavarmela. Pensare e fare fu ad un punto; mi buttai fuori senza guardar prima né dove né come cadessi, persuasissimo che acqua o terra qualche cosa avrei incontrato. Incontrai invece una gondola dentro la quale travidi durante il volo la faccia di Raimondo Venchieredo che spiava le nostre finestre. Il colpo che diedi sopra il fondo della barca mi sconciò quasi una spalla, ma le capriole della mia infanzia e la ginnastica di Marchetto mi avevano usato le ossa a simili scompigli. Mi rizzai come un gatto, più svelto di prima, corsi verso la prora per balzare sull'altra riva, ma mi si oppose involontariamente Raimondo che stava allora per uscire di sotto al felze, e si fermò spaventato dal quel corpo che nel cadere gli avea fatto dondolare sotto i piedi la gondola. — Ah sei tu, sciagurato? — gli dissi io rabbiosamente. — Prenditi la mercede del tuo spionaggio! E gli menai un tal manrovescio che lo mandò a rotolare sulla forcola ove per poco non si ebbe a cavar gli occhi. Intanto io avea guadagnato la riva e salutato d'un gesto la Pisana che mi guardava dal balcone e mi esortava a far presto e a fuggire. La zingara mia salvatrice stava ancora colla sua paletta dinanzi alla porta sgangherata spaventando colla sua attitudine guerresca i dodici sbirri, nessuno dei quali si sentiva volontà di seguire il caporione nella casa per incontrarvi quella brutta sorte che forse egli vi aveva incontrato. Badando meglio essi lo avrebbero udito strillare; chiuso nella cucina e col muso pestato dalla tremenda paletta egli si lamentava sulla nota più alta della sua scala di basso, come un vero porcellino condotto al mercato. Io avea veduto tuttociò in un lampo e prima che Raimondo si riavesse o i birri mi scoprissero era scomparso per una calletta che tagliava giù lì presso. In quella confusione di fatti e di idee fu una vera provvidenza che mi saltasse in capo di rifugiarmi presso gli Apostulos. Come anche feci e arrivai a salvamento senza nessun maggiore fastidio che quell'arrischiatissimo salto dalla finestra. I miei amici furono contentissimi di vedermi salvo da sì grave pericolo; ma pur troppo non si poteva ancora cantar vittoria, e finché non fossi fuori dalle lagune, anzi dalle provincie di qua dall'Adige, la mia libertà correva grandissimo rischio. — Dunque dove fareste conto di andare? — mi chiese il vecchio banchiere. — Ma... a Milano! — risposi io, non sapendo neppure cosa mi dicessi. — Proprio persistete nell'idea d'andar a Milano? — mi domandò a sua volta l'Aglaura. — Pare il miglior partito — io soggiunsi — e laggiù ci ho infatti i miei migliori amici, e mi aspettano da un pezzo. Spiro era corso da basso a licenziare la gente dello studio mentre si facevano cotali discorsi, e l'Aglaura pareva disposta a muovermi qualche altra inchiesta quand'egli tornò. Allora ella mutò viso e stette ad ascoltare come si prendesse cura di nulla; ma ella mi spiava premurosamente ogniqualvolta suo fratello voltava via l'occhio, e la udii sospirare quando suo padre mi disse che con un travestimento greco e il passaporto d'un loro commesso io avrei potuto partire l'indomani mattina. — Non prima — soggiunse egli — perché tutte le polizie sono molto occhiute e guardinghe sui primi momenti e cadreste facilmente nelle loro unghie. Domani invece non guarderanno tanto pel sottile perché vi crederanno già uscito di città, ed essendo festa i doganieri saranno occupatissimi a riveder le tasche dei campagnuoli che entrano. La vecchia, che era accorsa anco lei a congratularsi del mio salvamento, approvò del capo. Spiro soggiunse che sbarcato a Padova farei benissimo a spogliarmi del mio travestimento, e a prendere qualche strada di traverso per toccar il confine; il vestir alla greca avrebbe dato troppo nell'occhio. Io risposi a tutti di sì, e venni ad un altro argomento, a quello dei denari. Coi sette ducati che avea in tasca non potea già sognarmi di giungere a Milano; mi occorreva proprio una sommetta; e siccome anche i frutti anticipati d'un anno non mi bastavano, e d'altra parte qualche mezzo di sussistenza voleva lasciarlo alla Pisana, così proposi al greco che mi pagasse mille ducati, e del restante capitale contasse d'anno in anno gli interessi nelle mani della nobile contessina Pisana di Fratta, dama Navagero. Il greco ne fu contentissimo: stesi la ricevuta e la procura in regola e avvisai la Pisana con una lettera di queste mie provvidenze, includendole anche una carta colla quale la investiva dell'usufrutto della mia casa. Non si sapeva mai quanto potessi restarmene assente, e il meglio si era provvedere per un pezzo; né io temeva che la Pisana si sarebbe tenuta offesa di queste mie prestazioni, perché il nostro amore non era di quelli che si credono avviliti per simili minuzzoli. Chi ne ha ne dia; è la regola generale per tutto il prossimo; figuratevi poi tra due amanti che più che prossimi devono esser tra loro una cosa sola! Or dunque dato che ebbimo ordine a questi negozi, si pensò a metter in grado il mio stomaco di sostener le fatiche del primo giorno d'esiglio. Era già sera, io non avea preso da ventiquattr'ore null'altro che un caffè, pure non avea più fame che se mi fossi alzato allor allora da un banchetto di nozze. Cosa volete? Sulla mensa vi avevano a destra ed a sinistra de' gran bottiglioni di Cipro, io mi fidai di quelli, e mentre gli altri mangiavano e m'incoraggiavano a mangiare, mi diedi invece a bere per la

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Argomenti: reverendo padre,    secondo colpo,    regola generale,    vecchio volpone,    grande strepitio

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