Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 124

Testo di pubblico dominio

deplorabile stato di questa Serenissima Dominante dappoiché tutte le provincie di terraferma hanno inalberato lo stendardo della vera libertà. Ella sa l'inettitudine del governo dopo l'imbarco dei primi reggimenti schiavoni, e la fatica durata finora ad imbrigliare la rabbia del popolo. — Sì... sissignore, so tutto — balbettò il Savio di settimana. — Io ho ritenuto mio dovere di chiarire all'Eccellentissimo Procuratore tali tristi condizioni della Repubblica — soggiunse il Battaja. Lucilio, senza degnarsi di badare a costui, riprese la parola. — Ella conosce del pari, signor Procuratore, gli estremi sommari del trattato che si firmerà fra breve a Milano fra il cessante Maggior Consiglio e il Direttorio di Francia! Questo crudele ricordo cavò dagli occhi del Procuratore due lagrimone che se non accennavano il coraggio non erano peraltro senza una tal qual dignità di mestizia e di rassegnazione. Esse bagnarono tortuose la cipria di cui aveva spruzzolata la pelle, e ne divenne più giallo e men bello di prima. — Signor Procuratore — riprese Lucilio — io sono un semplice cittadino; ma cerco il bene, il vero bene di tutti i cittadini! Dico che si farebbe atto di patria carità e prova d'indipendenza correndo incontro alle ottime intenzioni degli altri; così si risparmierebbero molti disordini interni che non mancheranno di intorbidare le cose se ancora si tarda la conclusione del trattato. Io per me son alieno da qualunque ambizione, e lo vedranno dal posto che mi si è voluto concedere nel quadro della futura Municipalità. Il signor Villetard (e accennava l'ometto irrequieto e rossigno) ha favorito scrivere le condizioni, a tenor delle quali cambiatesi le forme del governo, un presidio francese entrerà a proteggere il primo stabilimento della vera libertà in Venezia. Sono i soliti articoli (prendeva in ciò dire dalla tavola uno scritto e lo scorreva rapidamente): erezione dell'albero della libertà, proclamazione della democrazia con rappresentanti scelti dal popolo, una Municipalità provvisoria di ventiquattro veneziani alla testa dei quali l'ex–doge Manin e Giovanni Spada, ingresso di quattromila Francesi come alleati in Venezia, richiamo della flotta, invito alle città di terraferma, di Dalmazia e delle isole ad unirsi colla madre patria, licenziamento definivo degli Schiavoni, arresto del signor d'Entragues, manutengolo dei Borboni, e cessione delle sua carte al Direttorio pel canale della Legazione francese. Son tutte cose note e concesse dall'unanime assenso del popolo. Infatti ieri stesso il Doge si dichiarò pronto in piena assemblea a deporre le insegne ducali e a rimettere le redini del governo in mano dei democratici. Noi chiediamo meno di quello ch'ei sia disposto a concedere. Vogliamo ch'egli resti a capo del nuovo governo, arra di stabilità e d'indipendenza per la futura Repubblica; non è vero, signor Villetard? L'omiciattolo accennò di sì con gran lavorio di gesti e di boccacce. Lucilio si rivolse allora di bel nuovo al Savio di settimana e gli porse quello scritto che aveva scorso poco prima. — Ecco, signor Procuratore — egli soggiunse — qui stanno i destini della patria: guardi ella di capacitarne l'animo del Serenissimo Doge e degli altri nobili colleghi, altrimenti... Dio protegga Venezia! io avrò fatto per salvarla quanto umanamente poteva. Rispose colle lagrime agli occhi il Procuratore: — Io sono veramente grato a tanto deferenza di loro illustri signori; — (Gli incorruttibili cittadini rabbrividirono a questi titoli scomunicati) — Il Serenissimo Doge ed i colleghi Procuratori, come cariche perpetue della Repubblica, sono pronti a sacrificarsi per la sua salute — (sacrificarsi voleva dire cavarsela) — tanto più che la fedeltà degli Schiavoni rimasti comincia a tentennare, e non ci meraviglierebbe per nulla di vederli unirsi ai nostri nemici... — (Il Procuratore s'accorse d'aver detto un sproposito e tossì e tossì che divenne scarlatto come la sua tonaca) — dico di vederli unirsi ai nostri amici, che... che... che... vogliono salvarci... ad ogni costo. Dunque io mi riprometto che queste condizioni — (e mostrava il foglio come se stringesse fra le dita una vipera) — saranno accettate con tutto il cuore dalla Serenissima Signoria, che il Maggior Consiglio ratificherà i nostri salutari intendimenti, e che presto formeremo una sola famiglia di cittadini uguali e felici. La voce moriva in gola al Procuratore come un singhiozzo; ma le sue ultime parole furono coperte da una salva di applausi. Egli ne arrossì, il poveruomo, certo di vergogna, e poi s'affrettò a chiedere che taluno di quella egregia adunanza volesse accompagnarsi con lui per recar quel foglio a Sua Serenità. Fu scelto a voti unanimi il Zorzi: un droghiere da appaiarsi ad un procuratore, per intimar l'abdicazione ad un doge!... Due secoli prima l'intero Consiglio dei Dieci si era presentato al Foscari, per chiedergli il corno e l'anello. Venezia tutta silenziosa e tremante aspettava sulla soglia del Palazzo la gran novella dell'ubbidienza o del rifiuto. Il vecchio e glorioso Doge preferì l'ubbidienza e ne morì di dolore: ultima scena terribile e solenne d'un dramma misterioso. Qual divario di tempi!... L'abdicazione del doge Manin potrebbe entrare come incidente in una commedia del Goldoni senza tema di derogare alla propria gravità. Intanto partirono il Procuratore e lo Zorzi, partì il Villetard col Battaja e alcuni altri patrizi, stupidamente traditori di se stessi: restammo noi pochi, l'eletta, il fiore della democrazia veneziana. Il Dandolo era quello che parlava di più, io certo quello che ci capiva meno. Lucilio s'era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare. Tutto ad un tratto egli si volse a noi con cera poco contenta, e disse quasi pensando a voce alta: — Temo che faremo un bel buco nell'acqua! — — Come? — gli diede sulla voce il Dandolo. — Un buco nell'acqua ora che tutto arride alle nostre brame?... Ora che i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per infrangerne i ceppi? Ora che il mondo redento alla giustizia ci prepara un posto degno onorato indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d'Italia, il domatore della tirannide ci porge la mano egli stesso per sollevarci dall'abiezione ove eravamo caduti? — Io sono medico — soggiunse pacatamente Lucilio. — Indovinare i mali è il mio ministero. Temo che le nostre buone intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo. — Cittadino, non disperare della virtù al pari di Bruto! — uscì a dire come ruggendo un giovinetto quasi imberbe e di fisonomia tempestosa. — Bruto disperò morendo, noi siamo per nascere! Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d'un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le più salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di Sant'Angelo, avea furoreggiato per sette sere filate. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte, che non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c'era l'invidia dell'ingegno, la più fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s'accorgeva di restar soperchiato, e credeva ricattarsi coll'accrescere veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d'uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l'orecchio, o se gli dava qualche zaffata era più per noia che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell'autor

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