Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 136

Testo di pubblico dominio

conghietture, perché, tra la materia così arcana e confusa com'è l'amore, e il temperamento precipitoso variabile indefinito della Pisana, non ci caverei un pronostico da far onore al lunario. Giulio scappava alle volte colle mani alle tempie, e i furori della gelosia e dell'orgoglio offeso nel cuore. Cercava fra le ombre della notte, sulle fondamenta più lontane e spopolate, quella pace che gli fuggiva dinanzi come la nebbia a chi sale una montagna. Là, sotto il pallido sguardo della luna, al fresco ventolio dell'aura marina, al lontano mormorare dell'Adriatico, un ultimo sforzo di poesia lo faceva risorgere da quel profondo abbattimento. Pareva che i fantasmi rinatigli d'improvviso in capo lo sospingessero a una corsa sfrenata, a un'ultima baldoria di vita e di gioventù. Gli pareva allora di essere o un genio che ha creato un poema come l'Iliade, o un generale che ha vinto una battaglia, o un santo che ha calpestato il mondo e si sente degno del cielo. Amore gloria ricchezza felicità, tutto era poco per lui. Reputava spregevoli e basse queste fortune terrene e passeggere, si sentiva maggiore di esse, e capace di guardarle come il pascolo di esseri mézzi e striscianti. Ergeva alteramente il capo, fissava il cielo quasi da eguale a eguale, e diceva fra sé: “Tutto che io voglia fare lo farò! Quest'anima mia chiude tanta potenza da sollevare il mondo: il punto di leva io l'avrei insegnato ad Archimede: è la fortezza dell'animo!” — Misere illusioni! Provatevi a toccarne una sola ed essa vi svanirà fra le dita come l'ala d'una farfalla. Ognuno, almeno una volta in sua vita, ha creduto facile l'impossibile, e onnipotente la propria debolezza. Ma quando, ricredendoci da questa opinione giovanile, qualche cosa di forte qualche cosa di sano ci resta, la vita serba ancora per noi un'ora di riposo se non di gioia. La vera disperazione ci atterra allora soltanto che, tornati alla coscienza della nostra inezia, non troviamo nessun punto ove appoggiare la speranza, nessuna nuvola da appendervi l'orgoglio. Allora lo smarrimento dello spirito ci fa traballare come ubbriachi e cader supini per non più rialzarci a mezzo il cammino della vita. Non più labbra che ci sorridono, non più occhi che ci invitano, e profumo di rose e varietà di prospetti e barbaglio di luce che ne persuada di andar avanti. Il buio dinanzi, ai lati, sul capo; di dietro la memoria inesorabile che, colle immagini dei mali crescenti sempre e dei beni per sempre fuggiti, ci toglie la forza della volontà e la potenza del moto. Tale Giulio restava dopo quei notturni delirii d'impotente poesia: tanto più misero e abbietto, quanto meglio sentiva la vanità di quella sognata grandezza. Come Nerone cred'io egli avrebbe tagliato la testa al genere umano per ottenere dalla Pisana non un sorriso d'amore ma un'occhiata di desiderio, e vedere frementi le labbra e sconfitta l'arrogante sicurezza di quel rivale abborrito. Mettere a sì alto prezzo una semplice occhiata, egli che pochi momenti prima si dava ad intendere d'aver sotto i piedi ogni cosa del mondo! — Quale avvilimento! E non poter nemmeno ricorrere per ultimo scampo all'idea della morte!... No, non lo poteva!... Una morte gloriosa compianta lagrimata gli avrebbe sorriso come un'amica; ma allora il trionfo del còrso e l'indifferenza della Pisana lo perseguitavano perfin nel sepolcro. Ben s'arrende alla morte chi sa di poter vivere, ma egli, senza osar confessarlo a se stesso, fiutava con raccapriccio nelle sue carni scalducciate ed inferme l'odore dei vermi. Egli lottava disperato nel mare della vita, ma le forze gli mancavano, l'acqua gli saliva al petto alla gola; già ne avea piene le fauci, già la mente si scombuiava nell'abisso del nulla e dell'obblio, dove non più superbia non più speranza; il nulla, il nulla, eternamente il nulla. Si scoteva dal sogno affannoso con un ribrezzo che somigliava viltà; sentiva di aver paura, e la paura gli cresceva dalla propria dappocaggine. “Oh la vita, la vita! datemi ancora un anno, un mese, un giorno solo della mia vita piena confidente rigogliosa d'un tempo! Tanto che possa rinfiammare un lampo d'amore, bearmi di piacere e d'orgoglio e morire invidiato sopra un letto di rose! Datemi un giorno solo del mio bollor giovanile, perché possa scrivere a caratteri di fuoco una maledizione che abbruci gli occhi di quelli che oseranno leggerla, e rimanga terribilmente famosa fra i posteri, come il Mane Tecel Fares del convito di Baldassare! Ch'io muoia; sì ma che possa coll'ultimo grido dell'anima lacerata sgominare per sempre gli impudenti tripudii di coloro che non ebbero una lagrima pei miei dolori!... Se mi è vietata la felicità d'amore, la coppa felice degli Dei, mi rimanga almeno l'immortalità di Erostrato, e la superbia dei demonii!...”. Così farneticava lo sciagurato stringendo la penna con mano convulsa, e cercando disperatamente nella tetra fantasia quelle parole tremende, infernali, che dovevano prolungare nella posterità la sua vita di martirio e vendicarlo delle angosce sofferte. Da un turbine vorticoso di idee monche e cozzanti, d'immagini camaleontiche, di passioni mute e furenti non uscivano che due pensieri dozzinali e quasi codardi: la rabbia della felicità altrui, e l'orrore della morte! — Almeno avesse egli potuto imprimere a tali pensieri quell'impronta straziante di verità nella quale l'uomo si specchia rabbrividito, e non può a meno d'ammirare il lugubre profeta che lo satolla d'orrore e di disperazione!... Ma neppur questo gli veniva concesso dalla continua instabilità della paura. Le forze dell'anima vanno tutte raccolte per creare alla verità un'immagine vera e sublime; egli invece si scioglieva in fantasticherie senza colore e senza fine. Non era la meditazione del sapiente, ma il vaneggiamento del malato. La mistione chimica soverchiava il lavoro spirituale, supremo castigo dell'orgoglio pigmeo! “Ah dover morire così, vedendo spegnersi ad una ad una le stelle della propria mente! sentendo sciogliersi atomo per atomo la materia che ci compone, e attirare abbrutita con sé quell'anima sfolgorante e serena che poco prima spaziava nell'aria e s'ergeva fino al cielo! Dover morire come il topo del granaio e la rana della palude, senza lasciare un'orma profonda incancellabile del proprio passaggio!... Morire a ventott'anni, assetato di vita, avido di speranza, delirante di superbia, e sazio solo d'affanno e d'avvilimento! Senza un sogno, senza un fede, senza un bacio abbandonare la vita; sempre col solo spavento, colla sola rabbia dinanzi agli occhi, di doverla abbandonare!... Perché fummo generati? Perché ci educarono e ci avvezzarono a vivere, quasiché durassimo eterni?... Perché la prima parola che vi insegnò la balia non fu morte? Perché non ci abituarono lungamente a fissar il volto, a interrogare con ardito animo questa nemica ignorata e nascosta, che ci assale poi d'improvviso, e ci insegna che la nostra virtù non fu altro che viltà? Dove sono i conforti della sapienza, le illusioni della gloria, le consolazioni degli affetti? — Tutto si getta d'in sulla nave per rifuggire al naufragio; e quando il flutto vorace si spalanca per ingoiarla, rimane solamente sulla più alta antenna nudo e disperato il nocchiero. Son vani gli sforzi e le lagrime; vane le preghiere o le bestemmie. La necessità è ineluttabile e il confuso fragore dell'onde attuta tre passi lontano le grida del furente e i gemiti del pauroso. Di sotto sta il nulla, tutto intorno l'obblio, di sopra il mistero. — Che mi dice il filosofo?... Dimentica, dimentica! Ma come dimenticare? La mia mente non ha più che quest'idea sola, i miei nervi non ripercotono al cervello che una sola immagine; le altre idee, le altre immagini son morte per me. Io sono entrato più che mezzo nel gran regno delle ombre; il resto vi entrerà fra poco. L'amore degli uomini, la religione della libertà e della giustizia sparirono dall'anima mia, come fantasmi ideati per ingannare i

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Argomenti: tre passi,    passi lontano,    temperamento precipitoso,    turbine vorticoso,    antenna nudo

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