Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 183

Testo di pubblico dominio

destra e a sinistra con un vero vocione da mugnaio. Non sapeva cosa volesse dire paura, e si scaldava nel furor della mischia senza mai dimenticarsi delle schiere che doveva condurre e governare: questi erano i suoi meriti. Scriveva passabilmente e con qualche intoppo d'ortografia, non conosceva che da un mese circa e soltanto di nome Vauban e Federico II; ecco i difetti. Pare che si desse maggior peso ai meriti, se in due anni e mezzo era diventato colonnello; ma il merito maggiore fu la carneficina di tutto il suo battaglione che, come dissimo, lo lasciò capitano per necessità. Un giorno lo incontrai che già i magazzini cominciavano a impoverire, e chi aveva derrate a tenerle per sé. Aveva la Pisana piuttosto malata e non m'era ancor venuto fatto di trovarle una libbra di carne pel brodo. — Ohé, Carlino — mi disse — come la va? — Vedi! — gli risposi — son vivo ancora, ma temo per domani o per dopodimani. La Pisana si sente male, e andiamo di male in peggio. — Che? la Contessina è malata?... Corpo del diavolo!... Vuoi che ti procuri otto o nove medici di reggimento?... I reggimenti non ci sono più, ma sopravvivono i medici; segno del loro gran sapere. — Grazie, grazie! ho il dottor Vianello che mi basta. — Sicuro che deve bastare; ma diceva così per consulto per curiosità! — No, no, il male è già conosciuto; dipende da difetto d'aria e di nutrimento. — Non ha altro? Fidati di me! domani son di guardia alla Polcevera e là le farò respirare tanta aria in un'ora quanta a Fratta non se ne respira in un giorno. — Sì, eh, alla Polcevera, con quei finocchietti che vi va regalando Melas! — Ah! è vero, mi dimenticava che è una contessina e che le bombe la possono infastidire. Allora non c'è rimedio; menala a spasso sui tetti. — Se avesse la volontà e la forza occorrente, farebbero anche i tetti, ma una malaticcia che si nutre di brodo di lattuga non può certo avere una gran vigoria. — Pover'a lei! Peraltro io posso trarti d'impiccio!... Vedi ch'io mi conservo abbastanza grasso e tondo, mi pare! — Davvero sembri un cappellano del Duomo di Portogruaro. — Eh! altro che cappellani! Di' mo che a cantar in coro si guadagnano muscoli di questa sorte! — e tendeva e gonfiava un braccio che per poco non faceva scoppiare le cuciture. — Io, vedi, mi son mantenuto così grazie alla mia previdenza. Ho ammazzato i miei due cavalli, li ho fatti salare e me li pappo a quattro libbre il giorno. Dopo sarà quel che sarà. Ma se vuoi entrar a parte della cuccagna... — Figurati! per me volentieri, e mi rimorderebbe di privar te; ma per la Pisana il cavallo salato non le conviene. — Allora un altro ripiego; la mia padrona di casa è tirata come una genovese e non mangia altro che erbe cotte, tagliate da un suo cortiletto che onora col nome di orto. Ma già credo che anche prima dell'assedio non mangiasse meglio, e la vita non è altro per lei che un lunghissimo blocco. T'immagineresti ch'essa tien sempre sui ginocchi un vecchio gatto d'Angora così grasso così morbido che parrebbe una golaggine a qualunque milanese? — Vada pel gatto d'Angora! — io esclamai. — Alla Pisana non le piacciono molto i gatti vivi, ch'io mi sappia; ma le si faranno piacer morti. E tutto starà a darle ad intendere che è brodo di pollo e non di gatto. Mi procurerò una manata di piume e guarderò di spanderla per la casa... — Se posso io per le piuma... — Grazie, Alessandro; mi sovviene che in camera ne ho pieni i cuscini del letto. Piuttosto, come farai ad impadronirti del gatto d'in sui ginocchi della signora?... Lì il bravo colonnello tirò il mento nel collare e se lo sfregolava che pareva lui un gattone in ruzzo di farsi bello. — Sì, perdiana, come farai, s'ella è tanto invaghita del suo gatto? — Carlino, ho avuto la disgrazia di piacerle più del gatto; e mi perseguita sempre che è una disperazione. — È dunque brutta se ti dà tanto noia? — Brutta, caro; spaventevole! Come farebbe un'avara ad esser bella? Mi par di vedere la signora Sandracca con qualche dente di meno. Io diedi un guizzo di raccapriccio. — Ma sta' pur cheto! non te la farò vedere: terrò tutto il gusto per me e in riguardo tuo e della Contessina rischierei anche di peggio. Ma spero di cavarmela collo spavento. Tutte le mattine ella usa bussare alla mia porta e domandarmi se ho dormito bene, girando il chiavistello come per entrare: ma io fingo di non m'accorger mai di questa voglietta e alla sera ci metto di mezzo tanto di catenaccio. Piuttosto mi dimenticherei di cavarmi gli stivali che di prendere una tal misura di sicurezza. Domani invece me ne dimenticherò a bella posta: la signora entrerà, e nel frattempo la mia ordinanza farà la festa al gatto. — Ben immaginato, perbacco: diventerai generale presto con queste maravigliose attitudini. Grazie adunque, e ricordati che aspetto dal tuo gatto la salute di mia cugina. Il giorno dopo Alessandro venne a trovarmi nella mia stanza che sonava mezzogiorno: aveva la cera negra e il viso imbronciato. — Che fu mai? — gli dissi io correndogli incontro. — Arpia maledetta! — sclamò il colonnello. — Te lo saresti immaginato tu, che venisse a picchiare al mio uscio col suo stupido gatto sotto il braccio?... — E così? — E così dovetti sorbirmi mezz'oretta di conversazione, che ne ho ancora sconvolte tutte le interiora, e scommetto che son bianco di bile come quando stava nel mulino!... Oh la maniera di dividerla da quel gatto indiavolato, dimmela tu se la sai immaginare! — Per esempio, se tu facessi per abbracciarla? Il povero Alessandro fece un atto come se gli avessi dato a fiutare una carogna. — Temo che sia l'unica — egli rispose — ma se poi il gatto non se ne va, se tarda ad andarsene?... — Oh diavolo! ad un capitano par tuo mancano mezzi da tirar in lungo una battaglia? Alessandro assunse a queste mie parole una cera grave e dignitosa; non ne scerneva il perché, quando fui come rischiarato da un lampo. — Scusa sai — aggiunsi — ho adoperato il vocabolo capitano nella sua significazione etimologica di capo; come si chiamano capitani Giulio Cesare, Annibale, Alessandro, Federico II! Non mi dimentico mai il grado che occupi ora! A questa dichiarazione e più al nome di Federico II la faccia del colonnello si rischiarò. — Benone — riprese egli contentissimo, accarezzandosi le guance. — Io farò così un qualche vezzo all'arpia... ma adesso che ci penso, cosa dirà la cameriera? — Che c'entra in tuttociò la cameriera? — C'entra, c'entra... oh bella! c'entra perché ci entro io. — È giovine e bella la cameriera? — Fresca, perdio, e salda come un pomino non ben maturo: con certe imbottiture intorno che ricordano le nostre paesane, e una bocchina che a Genova non se ne vedono di compagne. — Allora capisco perché c'entri tu, e perché c'entra lei. Son tutte conseguenze di conseguenze!... La cameriera potresti mandarla fuori a comperarti, che so io, della polvere di Tripoli per gli speroni. — No, no, amico, mi tirerei addosso le gelosie della figliuola della portinaia! — Ma caro il mio Alessandro, tu sei il cucco delle donne...? Bisogna proprio dire che pel sesso debole certi stimoli siano più urgenti di quelli della fame! — Sarà un accidente, Carlo!... Ma del resto fra queste cere da assedio il mio colorito la mia corporatura devono far colpo per forza!... E poi tra Genovesi e Friulani per forza bisogna intendersi a motti; abbiamo due dialetti così incomprensibili che a dimandar pane si piglierebbero sassate. — Buona la ragione! ma guai se non avessi il tuo cavallo salato! Peraltro alla cameriera potresti consegnare qualche cosa da stirare!... — Sì, sì, vedo io, capisco io, lascia fare a me!... Domani avrai il tuo gatto, da far il brodo per quindici giorni. — Ti raccomando, sai! Perché oggi ho potuto trovare un mezzo piccione e l'ho pagato un occhio della testa, ma domani siamo proprio sprovvisti affatto. Il valoroso colonnello mi

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Argomenti: merito maggiore,    vecchio gatto,    bravo colonnello,    stupido gatto,    sesso debole

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