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Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 159di padronanza sul vostro. Voi amate, Aglaura; voi avete perduto il diritto d'uccidervi, dato che persona possa mai avere questo diritto. — Ah sì è vero, io amo! — rispose la donzella con un certo suono di voce che non avvisai se provenisse da affanno di respiro o da amarezza d'ironia. — Io amo! — ripeté ella, e questa volta con tutta la sincerità dell'anima. — Deggio vivere per amare: avete ragione, amico!... Datemi braccio che torneremo a casa. Io le feci osservare che di colà non si poteva né salire né scendere senza pericolo, e che ad ogni modo non sarebbe stata prudenza l'avventurarvisi dopo il suo lungo svenimento. — Son più greca che veneziana — sclamò ella rizzandosi alteramente. — Svenni per oppressione di respiro, non per dolore né per paura; ve ne prevengo e credetemelo. Quanto al partire di qui, se salire non si può, scendere si potrà sempre. Non vedete quanto maestrevolmente vi siamo discesi noi! I miei ginocchi s'accorgevano della maestria, ed ella s'era calata a volo, ma non son prove da tentarsi due volte. Tuttavia non opposi obbiezioni temendo ch'ella mi giudicasse più veneziano che greco. — Laggiù lungo il lago — riprese ella — è un renaio che seguita, mi pare, fino al porto di Bardolino. Messivi i piedi sopra saremo sicuri della strada. — Il più bello sarà di metterveli i piedi — soggiunsi io. — Badate — diss'ella — e seguitemi. In queste parole abbrancandosi ad un ramo che sporgeva noderoso e flessibile si spenzolò dalla rupe; indi abbandonò il ramo e la vidi scendere strisciando come poco prima avea fatto io. Un minuto dopo ella poggiava le piante sulla sabbia molle e umidetta dove veniva a sussurreggiare morendo l'onda del lago. Potete credere che non volli mostrarmi dammeno d'una donna; arrischiai anch'io il gran salto, e con un secondo screzio di botte e di scorticature la raggiunsi che non mi parve vero di averla pagata cara. Allora volsi al cielo un sospiro così pieno di ringraziamenti che l'aria dovette accorgersene al peso; la mia compagna invece camminava lesta e saltellante come uscisse dal ballo o dal teatro. E dire che un quarto d'ora prima s'era precipitata volontariamente da un'altezza di due campanili! Donne, donne, donne!... quali sono i nomi dei centomila elementi, sempre nuovi, sempre varii, sempre discordi che vi compongono? — Io non aveva mai veduta l'Aglaura così lieta, così briosa come allora dopo avermi giuocato quel mal tiro da disperata. Soltanto quand'io voleva ridurla a darmene ragione ella stornava il discorso con un poco di broncio; ma lo ravvivava indi a un istante con maggior brio e con doppia petulanza. — Volete proprio saperlo?... Son pazza, e finiamola! Così mi chiuse la bocca da ultimo, e non se ne parlò più infatti. Tanto fu allegra spensierata ciarliera nel resto della passeggiata che comunicò anche a me qualche parte del suo buon umore, e se i miei ginocchi ricordavano molto, la mente per quella mezz'ora si dimenticò di tutto. — Quello che mi dispiace si è che mangeremo la trota fredda e le sardelle rinvenute! — disse scherzando l'Aglaura quando eravamo per toccare il lastrico del porto. Dico il vero che per quanto mi fossi riavuto, non aveva ancora le idee così chiare da ripescarvi per entro le sardelle e la trota. Però risi a fior di labbra di questo rammarico dell'Aglaura, e le promisi una frittata se il pesce non conferiva. — Ben venga la frittata e voglio voltarla io! — sclamò la fanciulla. Saffo che dopo il salto di Leucade rivolta la frittata è un personaggio affatto nuovo nel gran dramma della vita umana. Or bene, io vi posso assicurare che quel personaggio non è una grottesca finzione poetica, ma ch'esso ha vissuto in carne ed ossa, come appunto viviamo io e voi. Infatti l'Aglaura, non trovando di suo grado la trota, si mise alla padella a sbattervi le ova; io credo che la povera trota fosse ignominiosamente calunniata pel ruzzo ch'era saltato alla donzella di cavarsi questo capriccio. Io ammirava a bocca aperta. China col ginocchio sul focolare, col manico della padella in una mano, e il coperchio nell'altra che le difendeva il viso dal fuoco, ella pareva il mozzo d'un bastimento levantino che si ammannisce la colazione. La frittata riuscì eccellente, e dopo di essa anche la trota si vendicò del sofferto dispregio facendosi mangiare. Le sardelle adoperarono del loro meglio per entrare anch'esse dov'era entrata la trota. Infine non rimasero sui piatti che le reste, e d'allora in poi io mi persuasi che nulla serve meglio ad aguzzar l'appetito quanto l'aver cercato di ammazzarsi un'oretta prima. L'Aglaura non ci pensava più affatto; io pure m'avvezzava a riguardare quel brutto accidente come un sogno ed una burla, e lo stomaco lavorava con sì buona voglia che mi pareva impossibile dopo l'affannoso batticuore di pochi momenti prima. Confesso che anche ora ci veggo della magia in quel furioso appetito; quando non fosse l'Aglaura che mi stregava. Ogni sardella che inghiottiva era un brutto pensiero che volava ed un gaio e ridente che capitava. Rosicchiando la coda dell'ultima giunsi a immaginare la felicità che avrei provato in un tempo di calma di amore d'armonia goduto insieme alla Pisana su quelle piagge incantevoli. “Chi sa!” pensai trangugiando il boccone. Ed era tutto dire tanta confidenza nella buona stella dopo il temporalone di quella sera! Tanto è vero che gli estremi si toccano, come dice il proverbio, e che Bertoldo aveva ragione di sperar maggiormente il sereno durante la piova. Quella infine fu la serata più gioconda e piacevole che passassi coll'Aglaura durante quel viaggio; ma molto forse ci poteva la contentezza di vederci salvi da un sì gran pericolo. Accompagnandola nella sua stanza (l'osteria di Bardolino aveva fino dal secolo scorso pretensione d'albergo) non mi potei trattenere dal dirle: — Non me ne farete più, Aglaura, di cotali paure, n'è vero? — No, certo, e ve lo giuro — mi rispose ella stringendomi la mano. Infatti il mattino appresso traversando il lago, e i giorni seguenti viaggiando pei neonati dipartimenti della Repubblica Cisalpina ella fu così serena e composta che me ne stupiva sempre. Ed io più volte m'arrischiai allora di toccarla sul tasto di quella stramba volata, ma ella sempre mi dava sulla voce, dicendo che già me lo avea confessato le cento volte che la era pazza, e che rimanessi pur tranquillo che almeno in quella pazzia non ci sarebbe incappata più. Così entrammo abbastanza felici in Milano dove l'eroe Buonaparte con una dozzina di piastricciatori lombardi si dava attorno per improvvisare un ritratto abbozzaticcio della Repubblica Francese una ed indivisibile. Era il ventuno novembre; una folla immensa e festosa traboccava di contrada in contrada sul corso di Porta Orientale e di là fuori nel campo del Lazzaretto, battezzato novellamente pel campo della Federazione. Tuonavano le artiglierie, migliaia di bandiere tricolori sventolavano; era uno scampanio a festa, un gridare, un lanciar di cappelli, un agitarsi di fazzoletti di teste di braccia in quella calca allegra tumultuosa e non pertanto calma e dignitosa. Né io né l'Aglaura ebbimo cuore di fermarci in una camera mentre alla luce del sole, alla libera aria del cielo doveva inaugurarsi poco stante il governo stabile ed italiano della Repubblica Cisalpina. Posto giù il mio fagotto e senza ch'ella volesse deporre il travestimento virile ci mescolammo alla gente, contentissimi di esser giunti in tempo di quel solenne e memorabile spettacolo. Giunti al luogo dove l'Arcivescovo benediceva le bandiere fra l'altare di Dio e quello della patria, in mezzo ad un popolo innumerevole e fremente, dinanzi all'autorità popolare del nuovo governo, e alla gloriosa tutela di Bonaparte che assisteva in un seggio speciale, confesso anch'io che tutti gli scrupoli m'uscirono di capo. Quella era proprio la vita d'un popolo, e fossero stati Francesi o Turchi a risvegliarla, non ci trovava nulla a ridire. 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