Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 229

Testo di pubblico dominio

l'altro e a tremare di non poter rimettere le catene turche ai ribelli cristiani. Intanto si seguitava a combattere: i Bascià non si mostravano più tanto ligi ai pronostici del sultano Mahmud, né ubbidienti ai suoi comandi, i Giannizzeri stessi rifiutavano d'avventurarsi sopra una terra che inghiottiva i nemici. Cresceva per la Grecia il favore e l'entusiasmo dei generosi. Byron offerse le sue fortune, negoziò un imprestito, ma in quel frattempo ammalò, e alla notizia della malattia tenne dietro ben presto quella della morte. La Grecia accorse ai suoi funerali, tutta l'Europa pianse sopra la tomba santificata dall'ultimo anno di sua vita, e s'impose il suo nome ad uno dei bastioni di Missolungi. Luciano mi partecipò con commoventissime parole una tale disgrazia: egli si diceva desolatissimo che il suo illustre amico e protettore non avesse potuto colle imprese dell'eroe oscurare la fama del poeta. “Il tempo è nemico dei grandi” soggiungeva egli. Ma si sbagliava, perché Byron non sarà mai tanto grande pel suo generoso sacrifizio, come quando alcuni secoli si saranno accumulati sulla sua memoria. Intanto anche a me a Venezia, comportabilmente col sito, erano intervenute abbastanza gravi vicende. Raimondo Venchieredo che s'avea sposato la figliuola maggiore di Agostino Frumier, e per le strettezze economiche nelle quali era, e il talento capriccioso della giovine moglie, la faceva assai magra, si divertiva a sparlare di me e della Pisana, narrando massime di costei cose affatto nefande ed incredibili. Mi fu detto che al caffè Suttil egli teneva crocchio, e che non mancava sera che non dicesse qualche ignominia a carico nostro, forse per l'invidia che gli dava il continuo prosperare de' miei negozi commerciali. Per me forse avrei portato pazienza, non per la Pisana la quale io avrei difeso a costo anche della vita, beato di poterla in qualche modo ricompensare di tanti suoi sacrifizi. Perciò mi diedi io pure a frequentar quel caffè, e siccome pochissimi omai mi ravvisavano, me ne stava soletto in un cantuccio della camera posteriore, leggendo in apparenza la Gazzetta, ma in sostanza porgendo l'orecchio alla conversazione della prima stanza nella quale si mesceva sempre Raimondo colla sua solita spavalderia. La seconda o terza sera ch'io mi metteva in quell'agguato (e già gli avventori e i garzoni mi adocchiavano di traverso sospettandomi forse una spia), udii nel caffè un romore insolito di sciabola e di sproni, e un gran chiasso di saluti e congratulazioni, e il rimbombo d'una vociaccia aspra e gutturale che mi parve di dover conoscere. Sì, perbacco; doveva proprio essere il Partistagno; infatti udii bisbigliare il suo nome da qualcheduno che rispondeva a chi gliene avea chiesto, e Raimondo poco dopo, gridando evviva al signor generale, congratulandosi della sua grassezza, e domandandogli se veniva per tentare la reverenda badessa, non mi lasciò più alcun dubbio che non fosse lui. — No, caro mio, non vengo più a tentare la badessa: — rispose il Partistagno — mia moglie mi ha favorito un dopo l'altro sette maschiotti che mi danno da fare più d'un reggimento, e le monache mi sono uscite del capo. Peccato! perché suppongo non mi vedrebbe malvolentieri, benché l'età debba aver cooperato molto a finire di farla santa. Voi piuttosto, caro Raimondo, come ve la siete cavata colla sua sorellina che non avea, mi pare, la minima disposizione di farsi monaca? Se vi ricordate, l'ultima volta che fui a Venezia ne eravate ancora infervorato!... Giuggiole! Credo che ci sian corsi sopra vent'anni!... — Eh, eh! Ci son corsi sopra altro che anni! — soggiunse Raimondo — ne avrò delle belle da raccontarvi giacché siete tanto in addietro. Prima di tutto sapete la conclusione: la bella Pisana è morta. — Morta! — sclamò il Partistagno. — Non lo avrei mai creduto; le donne non muoiono così facilmente. — Infatti la Pisana vi ha durato una grandissima fatica — continuò Raimondo. — Figuratevi che ha fatto la serva per due anni al suo amante; ve ne ricordate?... A quel Carlino Altoviti!... — Sì, sì, me ne ricordo!... Quello che girava lo spiedo a Fratta e che poi è stato segretario della Municipalità. — Per l'appunto. Or dunque la Pisana sembra che alla sua maniera gli volesse un gran bene a quel Carlino. Del novantanove furono insieme a Napoli e a Genova, sempre col consenso di quell'ottimo Navagero che l'avea sposata: in seguito vissero fra loro come marito e moglie a varie riprese finché, non si sa come, essa incastrò nei fianchi all'amante una ragazza di campagna e gliela fece sposare. Sapete che fu una bella scena! Ognuno volle farvi sopra i suoi commenti, ma non si venne in chiaro di nulla! Voi, caro generale, che avete una sì fervida immaginazione, dovreste sciogliere il problema. Via, udiamo: cosa ne direste?... — Eh!... secondo!... distinguo!... scommetto che ella era stufa di lui, e che per liberarsene per sempre gli ha cacciato alle coste una moglie!... — Bravo generale! Ma cosa rispondereste se io vi dicessi ch'ella tornò allora a Venezia, e che si diede corpo ed anima a curar le piaghe di suo marito e a biascicar paternostri e deprofundis colla vostra badessa?... — Cosa direi... Giurabbacco!... Direi ch'ella voleva far pace con Domeneddio, e che per questo appunto si è liberata dell'amante. — Benone! Voi avete una fantasia feconda, caro generale, e un ingegno che accomoda tutto. Aveva un gran naso chi vi ha fatto generale!... Ma cosa direste se vi si raccontasse che nell'ultima rivoluzione di Napoli il bel Carlino, benché avesse i suoi quarantacinqu'anni sonati, spiccò il volo un'altra volta, e si lasciò mettere in gattabuia, e che andava a rischio di perdervi la testa, se la Pisana non piantava lì marito e genuflessorio per correre a intercedergli grazia, e a fargli tramutare la condanna in una relegazione?... Cosa direste se vi raccontassi che essendo rimasto cieco e al verde di quattrini l'amante, essa per due anni fu con lui in Inghilterra sostentandogli la vita colle peggiori fatiche? — Eh via! Matta matta! — brontolò col suo accento oltramontano il Partistagno. — O matto io a credervi, e voi a contare simili fole! — Sono tanto vangelo! — ripigliò calorosamente Raimondo. — E già v'immaginerete qual era il mestiero da cui la Pisana ritraeva i suoi guadagni... Una donzella veneziana non ne sa molti, me lo consentirete. Or dunque bisogna fare di necessità virtù... Ad onta de' suoi quarant'anni l'era così bella così fresca, che ve lo giuro io, molti anche non inglesi sarebbero rimasti accalappiati... L'amico Carlino poi sapeva tutto e pappava in pace... Eh, che ne dite? eh! che buon stomaco!... Peraltro, lo ripeto, bisogna fare di necessità virtù!... Più anche delle indecenti menzogne di Raimondo mi scaldavano la bile i sogghigni e le risate della brigata che tennero dietro alle sue parole. Perdetti ogni ritegno e precipitandomi nella stanza ove sedeva quella combriccola, m'avventai addosso a Raimondo stampandogli in viso lo schiaffo più sonoro che abbia mai castigato l'impudenza d'un calunniatore. — Anch'io faccio di necessità virtù! — gridai in mezzo alla confusione di tutti quei conigli che o fuggivano dal caffè o si riparavano tramortiti dietro i tavolini e le seggiole. — Questo ch'io ti diedi fu caparra di giustizia e se chiedi riparazione sai dove sto di casa. I calunniatori sono anche di solito vigliacchi. Raimondo tremava e fremeva, ma non sapeva in qual modo difendersi. La sua vigoria naturale, sebbene affranta dalle molli abitudini di tanti anni, gli riscaldava ancora il sangue; ma né la voce gli ubbidiva, né, avvezzo com'era a vedersi passate buone le sue smargiassate, poteva riaversi dalla sorpresa di quel subito assalto. Era come il cane che, dopo aver abbaiato un pezzo e inseguito accanitamente il ladro che fugge, si ritira ben tosto e ripara al pagliaio se quegli ha il coraggio di ripiombargli addosso. Io intanto, già uscito dalla

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Argomenti: talento capriccioso,    accento oltramontano

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