Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 71

Testo di pubblico dominio

preparato a' suoi figliuoli; battaglia e pervertimento d'ogni principio morale; servitù senza compenso e senza speranza nella quale l'anima, che pur vede il bene e lo ama, è costretta a curvarsi a pregare a supplicare dinanzi all'idolo del male. Io aveva troppo cuore e troppa memoria. Le rimembranze dei primi affetti infantili mi perseguitavano senza misericordia. Io fuggiva indarno; indarno mi volgeva a combatterle colla ragione; più antiche della ragione esse conoscevano tutte le pieghe, tutti i nascondigli dell'anima mia. Al loro soffio fatale una tempesta si sollevava dentro di me; una tempesta di desiderii, di rabbia, di furori, di lagrime. Oh meditatele bene queste due parole nelle quali si racchiude tutta la storia delle mie sciagure e delle mie colpe! Meditatele bene e poi dite se con tutta l'eloquenza della passione, con tutto il sentimento dei dolori sofferti, con tutta la sincerità del ravvedimento, potrei spiegarne l'orribile significato!... Io disprezzava ed amava! Riderete forse anco di questi due fanciulli che nel mio racconto la pretendono ad uomini: ma ve lo giuro una volta per sempre: io non vi ricamo di mio capo un romanzo: vo semplicemente riandando la mia vita. Ricordo a voce alta; e scrivo quello che ricordo. Scommetto anzi che se tutti vorrete tornar daccapo colla memoria agli anni della puerizia, molti fra voi troveranno in essi i germi e quasi il compendio delle passioni che poscia inorgoglirono. Credetelo a me; quello che si disse delle bambine che nascono piccole donne, si può dirlo anche degli uomini. La sferza del precettore e la cerchia obbligata delle occupazioni li tien domati generalmente fino ad una certa età. Ma lasciateli andare fare e pensare a lor grado; e tosto vedrete animarsi in essi, come nello spazio ristretto d'uno specchio ottico, tutta la varia movenza delle passioni più mature. Io e la Pisana fummo lasciati crescere come Dio voleva, e come si costumava a que' tempi se pur non si ricorreva alla scappatoia del collegio. Da una cotal educazione circondata di esempi tristissimi, si formava quel gregge impecorito di uomini, che senza fede, senza forza, senza illusioni giungeva semivivo alle soglie della vita; e di colà fino alla morte si trascinava nel fango dei piaceri e dell'oblio. I vermi che li aspettavano nel sepolcro potevano servir loro da compagni anche nel mondo. Io per mia parte, o per fortuna di temperamento o per merito delle avversità che mi afforzarono l'animo fin dai primi anni, potei rimaner diritto e non insudiciarmi tanto in quel pantano da esservi invischiato sempre. Ma la Pisana, tanto meglio di me fornita di belle doti e di ottime inclinazioni, andava sprovvista per disgrazia di tutti i ripari che potevano salvarla. Perfino il suo ingegno tanto vivace, pieghevole, svegliato s'offuscò e s'insterilì in quella smania di piacere che la invase tutta, in quell'incendio dei sensi nel quale fu lasciata ardere e consumarsi la parte più eletta dell'anima sua. Il coraggio, la pietà, la generosità, l'immaginazione, sanissimi frutti della sua indole, tralignarono in altrettanti strumenti di quelle brame sfrenate. O se risplendevano talora, nei momenti di tregua, erano lampi passeggieri, moti bizzarri e subitanei d'istinto, non atti consci e meritori di vera virtù. Un guasto sì lagrimevole cominciò nella prima infanzia; nel tempo di cui narro ora, l'era già ito tanto innanzi che sarebbe stato possibile forse l'arrestarlo, non distruggerne gli effetti; quando poscia io fui in grado di toccarlo con mano e di riconoscer in esso la causa per cui la Pisana era venuta sempre peggiorando cogli anni ne' suoi difetti infantili, allora non v'avea più forza alcuna nel mondo che potesse rinnovarla. Oh con quante lagrime di disperazione e di amore non rimpiansi io allora i secoli dei prodigi e delle conversioni miracolose!... Con quanto ardore di speranza non divorai quei libri dove s'insegnava a rigenerare le anime coll'affetto, colla pazienza, coi sacrifici!... Con quanta umiltà, con quanto coraggio non offersi parte a parte tutto me stesso in olocausto perché quell'angelo decaduto, di cui io aveva contemplato sull'alba della vita gli allegri splendori, riavesse la pompa della sua luce!... — O i libri mentiscono, o la Pisana era fatta omai tale che potenza d'uomo non bastava a cangiarla. Il cielo s'aperse dinanzi a lei una volta e io vidi quello che la mia ragione non vuol credere, ma che il cuore ha collocato nel più puro tesoro delle sue gioie. Come mi sembra vicino quest'ultimo giorno di ricompensa e di dolore infinito!... Ma quando viveva al castello di Fratta ne era ben lontano: e la mia mente avrebbe inorridito di credere che l'amor mio avrebbe ricevuto il premio più certo dalle mani della morte. Nei giorni susseguenti a quella sera che tanto mi avea fatto patire, io parvi a tutti così fiacco e sparuto che si temeva di qualche malattia. Volevano ad ogni costo che mi lasciassi tastar il polso dal signor Lucilio; ma io mi vi rifiutai ostinatamente, e finché il male non cresceva, mi lasciarono stare persuasi che fosse caponaggine di ragazzo. Vedevano bene le cameriere che gli affetti tra me e la Pisana s'erano raffreddati di molto, ma eran ben lontane dal credere che questa fosse la causa della mia sparutezza. Prima di tutto erano avvezze a questi intervalli di raffreddamento, e poi non davano alla cosa maggior importanza che non meritasse una fanciullaggine. Dopo un paio di giorni anche la Pisana s'accorse del mio pallore, e delle mie astinenze; sicché, quasi indovinandone il segreto, si sforzò a raccostarmisi per farmi bene. Io era già passato dal furore della disperazione alla stanchezza del dolore e la accolsi con aspetto melanconico e quasi pietoso. Quest'ultimo colore della mia fisonomia non le piacque per nulla; finse di credere ch'io le avessi dimostrato che non bisognava di lei e mi piantò lì come un cane. Oh se la mi avesse buttato le braccia al collo! Io sarei stato abbastanza credulo o codardo per stringermela al cuore, e dimenticare i crudeli momenti che la mi aveva fatto passare. Fu forse meglio così; poiché al giorno dopo il dolore mi si sarebbe presentato come nuovo, e m'avrebbe sorpreso più debole di prima. Ad onta della mia inferma salute, tutte le volte che la famiglia andò a Portogruaro io non mancai di accompagnarla; e colà ogni sera io assaporava con amara voluttà la certezza della mia sventura. Mi rinforzava nell'anima; ma il corpo ne soffriva mortalmente, e certo non avrei potuto continuar un pezzo quella vita. Martino mi domandava sempre cosa avessi da sospirar tanto; il Piovano si maravigliava di non trovare i miei latinetti così corretti come per l'addietro, ma non aveva coraggio di rimproverarmene, tanto la mia sfinitezza lo moveva a compassione; la contessina Clara mi stava sempre dietro con carezze e con premure. Io dimagriva a vista d'occhio, e la Pisana fingeva di non accorgersene, o se lasciava cadere sopra di me uno sguardo pietoso lo ritirava tosto. Ella intendeva punirmi così della mia superbia. Ma era forse superbia? Io moriva di crepacuore e pur compiangeva lei cagione della mia morte. La compiangeva e l'amava, mentre avrei dovuto odiarla, disprezzarla, punirla. Dicano tutti se era superbia la mia. In quel torno accadde per fortuna che la signora Contessa ammalasse; dico per fortuna, perché così rimasero interrotte le gite a Portogruaro e questa fu la ragione perché io non morii. Lucilio seguitava a praticare in castello, ora tanto più che ve lo chiamava il suo ministero di medico; ma la Pisana non era di gran lunga così incantata di lui a Fratta, come a Portogruaro. Una volta o due gli usò una qualche attenzione, poi se ne astenne senza sforzo e a poco a poco tornò appetto a lui nella solita indifferenza. Mano a mano che Lucilio usciva dal suo cuore vi rientrava io; e non debbo nascondere che la mia gioia di questo pentimento fu così veemente, così piena come se io fossi tornato alla prima fiducia dei nostri affetti. Io

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Argomenti: due parole,    troppo cuore,    soffio fatale,    ingegno tanto,    puro tesoro

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