Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 61

Testo di pubblico dominio

assito e nella quale io li vidi entrare per una fessura di questa. Il castello poco dopo taceva tutto nella quiete del sonno; ma io vegliava alla mia fessura perché i due cappuccini avevano certe cose addosso da stuzzicar propriamente la curiosità. Appena entrati nella stanza si assicurarono essi con due buone spanne di catenaccio; indi li vidi trarre di sotto alla tonaca arnesi, mi parevano, da manovale, ed anche due solidi coltellacci, e due buone paia di pistole, che non son solite a portarsi da frati. Io non fiatava per lo spavento, ma la curiosità di sapere cosa volessero dire quegli apparecchi mi faceva durare alla vedetta. Allora uno di loro cominciò con uno scalpello a smovere le pietre del muro dirimpetto che s'addossava alla torre; e un colpo dopo l'altro così alla sordina fu fatto un bel buco. — La muraglia è profonda — osservò sommessamente quell'altro. — Tre braccia e un quarto; — soggiunse quello che lavorava — ne avremo il bisogno per due ore e mezzo prima di poterci passare. — Ma se qualcuno ci scopre in questo frattempo! — Sì eh?... peggio per lui!... sei mila ducati comprano bene un paio di coltellate. — Ma se non possiamo poi svignarcela perché si svegli il portinaio? — E cosa sogni mai?... Gli è un ragazzaccio, il figliuolo di Fulgenzio!... Lo spaventeremo e ci darà le chiavi per farci uscire comodamente, altrimenti... “Povero Noni!” pensai io al vedere il gesto minaccioso con cui il sicario interruppe il lavoro. Quella bragia coperta di Noni non mi era mai andato a sangue, massime per lo spionaggio ch'egli esercitava malignamente a danno mio e della Pisana; ma in quel momento dimenticai la sua cattiveria, com'anche avrei dimenticato la chietineria invidiosa e maligna di suo fratello Menichetto. La compassione fece tacere ogni altro sentimento; d'altronde la minaccia toccava anche me, se avessero sospettato che li osservava pei fori dell'assito; e avvezzo già alle spedizioni avventurose sperai anche in quella notte di darmi a divedere un personaggio di proposito. Apersi pian pianino l'uscio del mio buco, e penetrai a tentone nella camera di Martino. Non volendo né arrischiando parlare, spalancai le finestre in modo che entrasse un po' di luce perché la notte era chiarissima: indi mi avvicinai al letto, e presi a destarlo. Egli saltava su di soprassalto gridando chi era, e cosa fosse, ma io gli chiusi la bocca colla mano e gli feci cenno di tacere. Fortuna che egli mi conobbe subito; laonde così a cenni lo persuasi di seguirmi e condottolo fin giù sul pianerottolo della scala gli diedi contezza della cosa. Il povero Martino faceva occhi grandi come lanterne. — Bisogna destare Marchetto, il signor Conte, e il Cancelliere — diss'egli pieno di sgomento. — No, basterà Marchetto; — osservai io con molto giudizio — gli altri farebbero confusione. Infatti si destò il cavallante il quale entrò nel mio disegno che bisognava far le cose alla muta senza baccani e senza molta gente. Il foro dietro cui lavoravano i cappuccini dava nell'archivio della cancelleria, che era una cameraccia scura al terzo piano della torre, piena di carte di sorci e di polvere. Il meglio era appostar colà due uomini fidati e robusti che abbrancassero uno per uno i due frati mano a mano che passavano e li imbavagliassero e li legassero a dovere. E così si fece. I due uomini furono lo stesso Marchetto e suo cognato che stava in castello per ortolano. Essi penetrarono pian piano nell'archivio adoperando la chiave del Conte che restava sempre nelle tasche delle sue brache in anticamera; e stettero lì uno a destra ed uno a sinistra del luogo ove si sentivano sordi i colpi dei due scalpelli. Dopo mezz'ora penetrò nell'archivio un raggio di luce, e i due uomini fermi al loro posto. Per ogni buon conto s'erano armati di mannaie e di pistole, ma speravano di farne senza perché i signori frati lavoravano sicuri e privi di qualunque timore. — Io passo col braccio — mormorò uno di questi. — Ancora due colpi e il difficile è fatto — rispose l'altro. Con poco lavoro s'allargò il buco siffattamente, che vi potea passare con qualche stento una persona; e allora uno dei due frati, quello che sembrava il caporione, allungò la testa indi un braccio indi l'altro e strisciando innanzi colle mani sul pavimento dell'archivio s'ingegnava di tirarsi addietro le gambe. Ma quando meno se lo aspettava sentì una forza amica aiutarlo a ciò, e nel tempo stesso un pugno vigoroso gli afferrò il mento, e sbarrategli le mascelle gli cacciò in bocca un certo arnese che gli impediva quasi di respirare nonché di gridare. Una buona attortigliata ai polsi e una pistola alla gola fornirono l'opera e persuasero colui a non moversi dal muro cui lo avevano addossato. Il frate compagno parve un po' inquieto del silenzio che successe al passaggio del suo principale; ma poi si rassicurò credendo che non fiatasse per paura di farsi udire, e fece animo egli pure di sporger la testa dal buco. Costui fu trattato con minor precauzione del primo. Appena impadronitosi della testa, Marchetto la tirò tanto che quasi gliel'avrebbe cavata se lo stesso paziente non avesse smosso colle spalle alcune pietre della muraglia. Imbavagliato e legato anche questo, lo si frugò ben bene unitamente al compagno; si tolsero loro le armi e furono condotti in un luoguccio umido, appartato, e ben riparato dall'aria dov'ebbero posto cadauno in una celletta come due veri frati. Li lasciarono così in preda alle loro meditazioni per destar la famiglia e propalare la gran novella. Figuratevi qual maraviglia, che batticuore, che consolazione! Era certo che anche quel nuovo tiro veniva dalla parte di Venchieredo. Laonde si decise di serbare piucché fosse possibile il segreto finché si desse notizia dell'accaduto al Vice–capitano di Portogruaro. Fulgenzio fu incaricato di ciò. La missione ebbe effetto così pieno che il castellano aspettava ancora il ritorno dei due frati, quando una compagnia di Schiavoni attorniò il castello di Venchieredo, s'impadronì della persona del signor giurisdicente, e lo trasse legato in tutta regola a Portogruaro. Certamente Fulgenzio avea trovato argomenti molto decisivi per indurre la prudenza del Vice–capitano a una sì forte e subitanea risoluzione. Il prigioniero pallido di bile e di paura si mordeva le labbra per esser caduto da sciocco in una trappola, e con tardiva avvedutezza pensava indarno ai bei feudi che possedeva oltre l'Isonzo. Le carceri di Portogruaro erano molto solide e la fretta della sua cattura troppo significante perché si lusingasse di poterla scapolare. Gli abitanti di Fratta dal canto loro furono alleggeriti d'un gran peso: e tutti si scatenarono allora contro la temerità di quel prepotente; e piccoli e grandi si facevano belli di quel colpo di mano come se il merito fosse appunto loro e non del caso. Un ordine venuto qualche giorno dopo di consegnare i quattro imputati d'invasione a mano armata, nonché i due finti cappuccini e le carte del processo di Germano ad un messo del Serenissimo Consiglio dei Dieci mise il colmo alla gioia del Conte e del Cancelliere. Essi respirarono di aver nette le mani di quella pece, e fecero cantare un “Te Deum” per motivi moventi l'animo loro quando dopo due mesi si venne a sapere di sottovento che i sei malandrini eran condannati alle galere in vita, e il castellano di Venchieredo a dieci anni di reclusione nella fortezza di Rocca d'Anfo sul Bresciano come reo convinto di alto tradimento e di cospirazione con potentati esteri a danno della Repubblica. Le lettere deposte da Germano erano appunto parte d'una corrispondenza clandestina, tenuta in addietro dal Venchieredo con alcuni feudatari goriziani, nella quale si parlava d'indurre Maria Teresa ad appropriarsi il Friuli veneto assicurandole il favore la cooperazione della nobiltà terrazzana. Rimasta in potere di Germano parte di questa corrispondenza per le difficoltà di porto e di recapito spesse volte

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Argomenti: due ore,    povero martino,    certo arnese,    serenissimo consiglio,    alto tradimento

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