Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 50

Testo di pubblico dominio

avrebbe messo a pezzi i contrabbandieri e che quelli che si erano rifugiati in castello l'avrebbero pagata più cara degli altri. Egli pretendeva che lì in paese fosse una lega stabilita per frodar i diritti del Fisco, e che il Cappellano ed il Conte ne fossero i caporioni. Ma era venuto il momento, diceva egli, di sterminare questa combriccola, e giacché chi doveva tutelare le leggi nel paese se ne mostrava il più impudente nemico, a loro toccava adempiere i decreti della Serenissima Signoria e farsi grandissimo merito con quell'impresa. — Germano, Germano, alza il ponte levatoio, e spranga bene il portone! — si mise a strillare il Conte, poiché ebbe udito tutta questa tiritera di insulti e di fandonie. — Il ponte l'ho già alzato io, Eccellenza! — rispose il Capitano — anzi per maggior sicurezza l'ho fatto gettar nel fossato da tre dei miei uomini perché le carrucole non volevano girare. — Benissimo, benissimo! chiudete le finestre, e chiudete tutti gli usci a catenaccio — soggiunse il Conte. — Che nessuno osi muover piede fuori del castello! — Sfido io a moversi ora che è rovinato il ponte! — osservò il cavallante. — Mi pare che il ponticello della scuderia ci assicuri una sortita in caso di bisogno — replicò sapientemente il Capitano. — No, no, non voglio sortite! — tornò a gridare il Conte — buttate giù subito anche il ponticello della scuderia: io metto da questo punto il mio castello in istato d'assedio e di difesa. — Faccio osservare a Sua Eccellenza che rotto quel ponte non si saprà più donde uscire per le provvigioni della giornata — obbiettò il fattore inchinandosi. — Non importa! dice bene mio marito! — rispose la Contessa che era la più spaventata di tutti. — Voi pensate ad ubbidire e a demolir tosto il ponticello delle scuderie: non c'è tempo da perdere! Potremmo esser assassinati da un momento all'altro. Il fattore s'inchinò più profondamente di prima, e uscì per adempiere all'incarico ricevuto. Un quarto d'ora dopo le comunicazioni del castello di Fratta col resto del mondo erano intercettate affatto, e il Conte e la Contessa respirarono di miglior voglia. Solamente monsignor Orlando, che pur non era un eroe, s'arrischiò di mostrare qualche inquietudine sulla difficoltà di procacciarsi la solita quantità di manzo e di vitello per l'indomani. Il signor Conte, udite le rimostranze del fratello, ebbe campo di mostrare l'acume e la prontezza del suo genio amministrativo. — Fulgenzio — diss'egli con voce solenne — quanti neonati ha la vostra scrofa? — Dieci, Eccellenza — rispose il sagrestano. — Eccoci provveduti per tutta la settimana — riprese il Conte — giacché pei due giorni di magro provvederà la peschiera. Monsignor Orlando sospirò angosciosamente ricordando le belle orade di Marano e le anguille succolente di Caorle. Ohimè, cos'erano a paragone di quelle i pesciolini pantanosi e i ranocchi della peschiera? — Fulgenzio; — proseguì intanto il Conte — farete ammazzare due dei vostri porcellini; l'uno per l'allesso e l'altro per l'arrosto: avete inteso, Margherita? Fulgenzio e la cuoca s'inchinarono alla lor volta; ma sospirare toccò allora a monsignor di Sant'Andrea, il quale per un suo incommodo intestinale non potea digerire la carne porcina, e quella prospettiva di una settimana d'assedio con un simile regime non gli andava a sangue per nulla. Senonché la Contessa, che gli lesse questo scontento in viso, s'affrettò ad assicurarlo che per lui si avrebbe messo a bollire una pollastra. La fisonomia del canonico si rischiarò tutta d'una santa tranquillità; e con un buon pollaio anche una settimana d'assedio gli parve un moderatissimo purgatorio. Allora, dato ordine al rilevantissimo negozio della cucina, la guarnigione si sparpagliò a porre la fortezza in istato di difesa. Si appostarono alcuni vecchi moschetti alle feritoie; si trascinarono due disusate spingarde nel primo cortile; si sbarrarono le porte e le balconate. Da ultimo si sonò la campanella pel rosario, e nessuno lo avea detto da molti anni con maggior divozione che in quella sera. La Contessa in quei momenti era troppo fuori di sé per badare ad altri che a se stessa, ma sua suocera quando cominciò ad imbrunire chiese conto della Clara, perché la tardasse tanto a portarle il suo solito panbollito. La Faustina la Pisana ed io ci mettemmo tantosto a cercarla; chiama di qua cerca di là, non ci fu verso che la potessimo trovare. L'ortolano soltanto ci disse averla veduta uscire dalla parte della scuderia un paio d'ore prima; ma di più egli non ne sapeva, e credeva la fosse rientrata, come costumava, dalla banda del piazzale colla signora Contessa. Di lì certo non l'avrebbe potuto ripassare, perché il fattore avea eseguito tanto appuntino gli ordini ricevuti, che del ponticello non rimaneva vestigio. D'altronde la notte cadeva già buia buia, e non era a credersi che la fosse stata a zonzo in fin allora. Ci rimisimo dunque in traccia di lei, e solo dopo un'altra ora di minute ed infruttuose indagini la Faustina si decise a rientrare in cucina per dare ai padroni quella tristissima nuova dello sparimento della Contessina. — Giurabbacco! — sclamò il Conte — certo quei manigoldi ce l'hanno portata via! La Contessa volle affliggersene assai, ma la propria inquietudine la occupava troppo perché la vi potesse riescire. — Figuratevi — continuava il marito — figuratevi cosa son capaci di fare quegli sciagurati che danno del contrabbandiere a me per poter mettere a soqquadro il paese! Ma me la pagheranno, oh sì che me la pagheranno! — soggiungeva sotto voce per paura che non lo udissero fuori del girone. — Sì, chiacchierate, chiacchierate! — riprese la signora — le chiacchiere son proprio buone da aiutarvi a friggere! Ecco che da tre ore noi siamo chiusi in rete e non avete pensato a nessuna maniera da levarci di ragna!... Vi portano via la figlia e voi vi sfiatate a dire che ve la pagheranno!... Già per quello che la costa a voi, ben poco potreste pretendere! — Come, signora moglie?... Per quello che la costa a me?... Cosa sarebbe a dire? — Eh se non intendete, aguzzatevi il cervello. Voleva dire che dei figli vostri e di me stessa e della nostra salute voi vi date tanto pensiero come di raddrizzare la punta al campanile. — (Qui la Contessa ne fiutò rabbiosamente una presa). — Vediamo cosa avete pensato per cavarci d'imbroglio?... In qual maniera volete andar in traccia della Clara!? — Siate buonina, diamine!... La Clara, la Clara!... non c'è poi soggetto da indiavolarsene tanto. Sapete come l'è bellina e costumata. Io son d'opinione che se anche dormisse una notte fuori del castello non le interverrà alcun guaio. Quanto a noi, spero che non vorrete ridurci alle schioppettate. — (La Contessa mosse un gesto di ribrezzo e di impazienza). — Dunque — (seguitò l'altro) — proveremo a parlamentare! — Parlamentare coi ladri! benone per diana! — Ladri!... chi vi dice che sian ladri?... Son messi di giustizia, un po' spicciativi, un po' ubbriachi se volete, ma pur sempre vestiti di un'autorità legale, e quando sarà loro passata la scalmana, intenderanno ragione. S'erano troppo infervorati nel dar la caccia a due o tre contrabbandieri; il vino li ha fatti stravedere, ed hanno creduto che i fuggitivi si siano ricoverati a Fratta. Cosa c'è di straordinario in questo?... Se li persuaderemo che qui di contrabbandi non ce n'è mai stata orma, essi torneranno verso casa mansueti come agnellini. — Eccellenza, ella si dimentica una circostanza — s'intromise a dire monsignore di Sant'Andrea. — Sembra che i fuggitivi fossero sgherani essi pure travestiti da contrabbandieri e cacciati innanzi come pretesti a movere questo gran tafferuglio. Germano pretende aver conosciuto fra loro alcun mustacchione di Venchieredo. — Eh cosa c'entro io! cosa ci ho a far io! — sclamò disperatamente il povero Conte. — Si potrebbe intanto mandar fuori alcuno

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Argomenti: tre ore,    voce solenne,    tanto pensiero,    simile regime

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