Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 105

Testo di pubblico dominio

soggezione. — Hai ragione, iersera non eravamo soli: c'era molta gente; fra gli altri Raimondo Venchieredo e Giulio Del Ponte. Io introdussi questi due nomi per giungere al discorso che voleva intavolare con lei, ma ella ci odorò all'incontro un grano di gelosia, e credo che me ne seppe buon grado. — Il signor Giulio Del Ponte — soggiunse ella — e il signor Raimondo di Venchieredo non mi fanno adesso né caldo né freddo; peraltro sono anch'essi gente come gli altri, e non mi ci trovo più di fare spettacolo pubblicamente de' miei sentimenti. — Questo sarebbe un gran bene, Pisana; ma col fatto non mantieni la promessa. Ieri per esempio mi pare che i tuoi sentimenti pel signor Raimondo fossero abbastanza chiaramente espressi, e che Giulio li comprendesse a meraviglia. — Oh non mi secchi più il signor Giulio! ho anche troppo fatto e sofferto per lui! — Dici davvero? hai sofferto per lui? — Figurati!... io gli voleva un po' di bene ed egli se ne ingalluzzì tanto che s'era, credo, messo in capo di sposarmi. Ma già sai come la sentano i miei su questo tasto del matrimonio. Sarebbe stata una replica di quella brutta commedia di Clara e di Lucilio; io ho dovuto metter giudizio anche per lui, gli ho parlato fuor dei denti, e per ridurlo meglio a ragione ho preso a far meno la ritrosa con Raimondo. Lo crederesti che al signor Giulio non andò a sangue questa mia ragionevolezza, egli che se mi voleva bene doveva appunto incoraggiarmivi?... Cominciò a far il patito il geloso e ti confesso che, in onta a tutto, mi faceva anche compassione; ma cosa doveva fare? seguitare ad ingannarlo e a menarlo di palo in frasca?... Fu meglio come ho pensato io, tagliar il male alla radice; la ruppi affatto con lui, e buona notte. Allora fu che si mise sotto Raimondo sul serio, e questo, ti dico la verità, mi conveniva come marito; ma mentre appunto che si bisbigliava da tutti d'una prossima domanda formale da parte sua, ecco capitarmi addosso Del Ponte cogli occhi fuori della testa, e a gridare che se avessi sposato Raimondo, si sarebbe ammazzato, e che so io altro! Io forse fui troppo credula troppo buona, ma cosa vuoi? non ci penso troppo alle cose e questo è il mio difetto, tantoché per consolarlo per quietarlo e più ancora per liberarmene gli promisi che non avrei sposato Raimondo. E da ciò provenne che lo rifiutai, benché, ti giuro, egli mi piacesse, e sentissi di fare un gran sacrifizio!... Questa è amicizia, mi pare! cosa doveva fare di più? — Oh diavolo! — soggiunsi io — Giulio non mi ha detto nulla di ciò! — Come, tu gli hai parlato a Giulio? — sclamò la Pisana. — Sì, gli ho parlato ieri sera, perché mi faceva compassione la sua cera desolata per la brutta maniera con cui lo trattavi. — Io trattarlo con brutta maniera? — Caspita! non gli hai rivolto mai neppur un'occhiata! — Oh bella! dovrebbe anche ringraziarmene! Se avessi continuato a lusingarlo, avrebbe finito col disperarsi più tardi; meglio è separarsi da buoni amici ora, finché il male è sanabile. — Sembra che questo male non sia tanto sanabile come tu credi. Forse tu non ci badi, ma egli ne soffre all'anima di vederti incapricciata del Venchieredo e noncurante di lui. La sua salute peggiora di giorno in giorno, ed io credo che la passione lo consumi. — Cosa dunque mi consiglieresti di fare? — Eh!... il consiglio è difficile; ma pur mi sembra che, giacché hai promesso di non maritarti col Venchieredo, dovresti romperla addirittura anche con questo. — Per rappiccarla con Giulio? — m'interruppe malignamente la Pisana. — Anche; se senti proprio di volergli bene — risposi io con uno sforzo violento sopra me stesso. — Ma ad ogni modo, separata che ti fossi da Raimondo, egli si affliggerebbe meno, e chi sa che anche senza il rimedio dell'amor tuo non giunga a guarire. La Pisana si raddrizzò accomodandosi i capelli sulle tempie e sorridendo accortamente. Ella credette che tutta quella mia manovra non tendesse ad altro che a liberare il campo da ambidue i pretendenti a mio totale benefizio. — Si potrà provare, purché tu mi aiuti — ella soggiunse. — Non so in che possa aiutarti: — le risposi — ieri sera anche senza di me facevi benissimo i tuoi soliti vezzi al Venchieredo: e non hai mostrato di accorgerti che io fossi tornato da Padova se non al mio entrar nella sala, per un lieve saluto. — Oh bella! e se avessi voluto vendicarmi della tua stessa freddezza? — Via, via bugiarda! E l'altra sera di che ti vendicavi dunque? Credi che io non sappia da quanto tempo dura questa tua scalmana per Raimondo! — Ma se ti ripeto che tutto era per distoglier Giulio! Vorresti che avessi il coraggio di dargli un rifiuto se mi piacesse sul serio? — Vedi, come fai smacco alla tua stessa virtù?... Ti vantavi pure poco fa del tuo rifiuto come di un gran sacrifizio! La fanciulla restò attonita confusa e stizzita. Era la prima volta che le sue lusinghe non mi trovavano pronto a farmi corbellare; e questo appunto la spronò a insistervi perché non era donna da ritrarsi da nessuna cosa senza prima averla spuntata. In fatto, fosse merito della mia presenza, della predica, o della sua bontà; il fatto sta che il suo bollore per Raimondo si sfreddò tutto d'un colpo, e il povero Giulio si vide onorato da alcuni di quegli sguardi che tanto più sembrano cari quando sono da lunga pezza insoliti. In fondo in fondo, peraltro, ella non dedicava a lui che la parte d'attenzione che gli veniva come persona della conversazione; e le premure della donzella tornavano a poco a poco a concentrarsi in me. Andò tant'oltre questa mia fortuna che ne fui turbato e sconvolto. A Fratta, vicino alla Pisana, ammaliato dalle sue occhiate, dalla sua bellezza, infiammato dalle sue parole, rade, bizzarre, ma talvolta sublimi e tal'altra perfin pazze di delirio d'amore, io dimenticava tutto, io riprendeva la servitù d'una volta, era tutto per lei. Ma a Portogruaro mi si rizzava dinanzi come una larva la faccia cadaverica e beffarda di Giulio: io aveva paura, rabbia, rimorso; mi pareva ch'egli avesse diritto di chiamarmi amico sleale e traditore e che la Pisana avesse fiutato meglio di me la innata viltà del mio cuore quando aveva sospettato che non pel bene di Giulio ma pel mio io cercassi distoglierla affatto dal Venchieredo. Eppure quella sete inesauribile, quel diritto che ci sembra avere a un'ombra almeno di felicità, combatteva sovente cotesti scrupoli. Quando mai era io stato l'amico di Giulio? Non era anzi egli stato il primo a romper guerra con me, rubandomi l'affetto della Pisana, o almeno attirandone a sé la parte più fervida e bramata? Qual amante sfortunato non ha aperto l'adito alla rivincita e non se ne giova? E poi non aveva io adoperato verso di lui con ottime intenzioni? Se queste intenzioni in mano della fortuna le avean servito per favorir me, doveva io confessarmi colpevole; o non piuttosto approffittar della mia ventura, giacché me ne cadeva il destro? — La coscienza non s'acquetava a questi argomenti. “È vero”, rispondeva, “è vero che non vi è ragione alcuna per cui tu debba essere l'amico di Giulio; ma quante cose non accadono senza apparente ragione? La stima, la somiglianza delle indoli, la compassione, la simpatia generano l'amicizia. Il fatto sta che per quanto tu dovessi odiar Giulio, appena arrivato da Venezia, la sua miseria i suoi tormenti te lo hanno fatto amare; gli dimostrasti affetto d'amico; tanto basta perché tu debba allontanare perfino il solo dubbio che le tue profferte d'allora non fossero sincere. Hai avuto rimorso del suo smarrimento per conto della Pisana, e non vuoi averlo per te?... Vergogna! Impari le sofisticherie dell'avvocato Ormenta e a non essere galantuomo colla pretesa di parerlo. Volevi che la Pisana sacrificasse il Venchieredo per la salute di Giulio, or dunque adesso sacrifica te, o ti dichiaro un codardo!”. Quest'ultima intemerata della mia padrona mi persuase. A poco a poco con mille accorgimenti,

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Argomenti: sforzo violento,    povero giulio,    domanda formale,    penso troppo,    tanto basta

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