Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 175

Testo di pubblico dominio

avea serbato una fede candida un amore costante, e pur allora lo aveva provato coll'esporre la mia vita nel salvare la sua, per quanto il modo ed il luogo dove la trovava dovessero inviperire la mia rabbia, e convertir l'affetto in furore, vederla furibonda e sdegnosa contro di me, mentre l'aspettava umile e tremante, fu un cotal colpo che mi lacerò le viscere. L'ira mia si sollevò fino contro Dio, il quale permetteva che l'innocenza fosse maltrattata così indegnamente, e che il vizio armato di fulmini si godesse di atterrirla dall'alto del suo trono di vergogne. — Pisana — gridai con voce soffocata e travolta da singhiozzi — Pisana, basta! Non voglio, non posso più ascoltarti!... Le parole che ora pronunciasti sono più vili più oscene dei tuoi tradimenti!... Oh non istà a te, non istà a te l'accusarmi!... Mentre confessi il delitto più mostruoso che l'amante possa commettere contro l'amante, hai ancora la crudeltà e la baldanza di pascerti delle mie lagrime, di godere de' miei tormenti, e di fingerti offesa e vituperata per minacciarmi una vendetta più sanguinosa, ma pur sempre meno indegna di quella che hai già consumato contro di me!... Taci, Pisana; non una sola parola di più: o io rinnego quanto v'è ancora di giusto e di santo al mondo; io mi strappo dal petto l'onore e lo butto ai cani come un abbominio!... Sì, rinnego anche quell'onore bugiardo che soffre quaggiù la vergogna dovuta agli spergiuri senza rispondere con uno scoppio di vulcano a sì sfrontate calunnie! La Pisana si strinse la fronte colle mani e si mise a piangere; indi improvvisamente balzò dal letto, ove l'avevano adagiata vestita com'era, e fece motto di voler uscire dalla stanza; io la trattenni. — Dove vuoi andare ora? — Voglio andare dal signor Ettore Carafa: conducimi tosto dal signor Ettore. — Il signor capitano sarà ora occupatissimo nel dare la caccia ai Napoletani, e non ci sarebbe tanto facile trovarlo; d'altronde egli fu avvertito del tuo salvamento e non può fare che non ti raggiunga appena lo potrà. Queste ultime parole io le condii d'un discreto sapore d'ironia, ond'ella inalberandomisi dinanzi: — Guai a lui, o guai a te! — sclamò con atto profetico. — Guai a nessuno — io le risposi con fronte sicura — guai a nessuno; pur troppo!... Io sarei ben fortunato di poter uccidere taluno!... — Perché non uccidi me? — uscì ella a dire con molta ingenuità. — Perché... perché... perché sei troppo bella... perché mi ricordo che fosti anche buona! — Taci, Carlo, taci!... Credi che verrà presto il signor Ettore? — Non te lo dissi?... Appena potrà!... Ella tacque allora per lunga pezza, e al dubbio chiarore della luna che entrava dalla loggia vicina, vidi che molti e varii pensieri le traversavano la fronte. Ora fosca, ora raggiante, ora tempestosa come un cielo carico di nuvole, ora calma e serena come il mare d'estate; si componeva talvolta all'attitudine della preghiera, poco dopo stringeva il pugno come avesse in mano uno stilo e ne ferisse a più riprese un petto aborrito. Colle vesti discinte, brutte di sangue e di polvere, coi capelli semiarsi e scarmigliati, colle sembianze scomposte dalle vicende terribili di quella mezza giornata, ella poggiava il gomito sulla tavola affumicata e sanguinosa pur essa. Sembrava qualche negra pitonessa uscita dall'Erebo allora e meditante gli spaventevoli misteri della visione infernale. Io non osava rompere quel tetro silenzio, avea anch'io bisogno di raccogliermi e di pensare, prima di provocare le rivelazioni della tetra Sibilla. La storia del cuor suo e quella della sua vita dopo la mia partenza si illuminavano a sprazzi nella mia atterrita fantasia; ma aveva ribrezzo di guardare, sentiva che pel momento era uno sforzo superiore alle mie forze. Se taluno mi avesse detto: “a prezzo di farti stupido io prometto convincerti della innocenza della Pisana”, certo io avrei accettato il contratto. Indi a un'ora circa il signor Ettore Carafa solo, accigliato, entrò nella stanza. Non aveva cappello, ché l'aveva perduto nella mischia, cingeva il fodero senza spada perché l'aveva spezzata nel cranio d'un dragone dopo avergli segato l'elmo per mezzo alla cresta; la sua cicatrice s'imbiancava d'un pallore quasi incandescente. Salutò, si mise tra me e la Pisana, e aspettò che alcuno di noi parlasse. Ma la Pisana non lo lasciò aspettare a lungo, ché con fare superbo e stizzoso gli domandò che ripetesse la storia de' miei amori colla bella greca; e narrasse la cosa ingenuamente come l'aveva narrata a lei. Il Carafa infatti, chiestone a me licenza, narrò senza scomporsi quello che aveva saputo di tali amori nei crocchi di Milano, e della bella giovane, e della gelosia con cui la teneva nascosta agli occhi di tutti. — Ecco, Pisana, cosa vi narrai — conchiuse egli — quando appena giunta a Milano veniste da me a chiedermi se nulla sapeva di Carlo Altoviti mio ufficiale e degli amori suoi che facevano tanto chiasso appunto pel loro mistero. Narrando ciò, non facea che ripetere la voce di tutti, e ne andava certamente illeso l'onore di colui ch'era l'eroe di quei tali amori. Ho fallato?... Non mi pare!... Di null'altro debbo render conto a nessuno! La Pisana parve soddisfatta abbastanza di questa temperatissima arringa del Carafa, e si volse a me, come il giudice al reo dopo la deposizione d'un testimonio irrefragabile. — Pisana, perché mi guardate a quel modo? — soggiunsi. — Perché? — diss'ella — perché vi odio, perché vi disprezzo, perché vorrei potervi fare più onta che non vi feci col buttarmi nelle braccia d'un altro... Io inorridii di tanto cinismo; ella se n'avvide e si contorse tutta come uno scorpione toccato da una bragia. Si pentiva d'essersi mostrata qual era, veramente diabolica ed insensata in quel momento di rabbia. — Sì — riprese ella — guardami pure!... Io posso amare un uomo ogni giorno, quando tu giuravi di amar me, e macchinavi già di rapire l'Aglaura!... — Insensata! — gridai. Corsi al mio baule, ne trassi alcune lettere di mia sorella, e le buttai sulla tavola dinanzi a lei. — Un lume! — ordinai poi sulla porta; ed avutolo lo posi vicino alla Pisana, e le dissi: — Leggete! La fortuna mi aiutava col lasciarle ignorare ch'io non conosceva la mia parentela coll'Aglaura quand'eravamo fuggiti da Venezia; avvisai utile il lasciarglielo ignorare anch'io, per non inviluppare piucchemai i mille particolari di quella scena dolorosa e malagevole. Ella lesse due o tre di quelle lettere, le passò ad Ettore dicendo: — Leggete anche voi! — e mentr'egli le scorreva in fretta dando segno di maraviglia e di dispiacere, ella andava dicendo fra i denti: — Mi hanno tradita!... È stata una congiura!... Maledetti, maledetti!... Li divorerò tutti!... — No, Pisana, nessuno ti ha tradito; — le dissi io — tu fosti a tradir me!... Sì, tu!... Non difenderti!... Non invelenirti contro di me!... Ma se m'avessi amato davvero, oh io poteva essere spergiuro infame scellerato che mi ameresti ancora!... Lo sai, Pisana, lo sai perché te lo dico?... gli è perché lo sento. Gli è perché tal quale or sei, mi vergogno a dirlo, io t'amo, io t'adoro ancora!... No, non sgomentirti! Ti fuggirò, non mi vedrai mai più!... Ma lasciami prendere di te questa sola vendetta, che tu sappia di aver fatto l'eterna sventura di quell'uomo al quale potevi essere gioia, conforto, felicità per tutta la vita!... Carafa aveva scorso intanto alcune delle lettere e me le rese dicendo: — Perdonate; m'ingannò la voce pubblica, ma non ebbi intenzione d'ingannare. Una cotal scusa in bocca d'un tal uomo mi commosse a segno che a stento frenava le lagrime; infatti io vedeva il gran sforzo indurato dal signor Ettore per poter ottener tanto dal proprio animo. L'alterigia piegava sbuffando sotto la forza inesorabile della volontà. La Pisana piangeva e una doppia vergogna le impediva di rivolgersi al pari al signor Ettore e a me. Questi ebbe compassione, non so bene

Tag: contro    tanto    guai    nessuno    dopo    uno    vita    tutti    dicendo    

Argomenti: dubbio chiarore,    discreto sapore,    cielo carico,    sforzo superiore,    tanto chiasso

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