Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 43

Testo di pubblico dominio

tener accesa una lucerna cui vien mancando l'olio. Le anime piccole debbono diffidare di sé, e più delle proprie passioni quanto sono più intense; in esse l'amor tiepido può durare a lungo fausto a sé e ad altrui; l'amor veemente è una meteora è un lampo che più infelicità produce quanto maggiori speranze avea suscitato. Ma la infelicità così prodotta è tutta per gli altri, giacché i frivoli non son tali da sentirla. Per questo non si danno eglino cura alcuna di schivar le occasioni ond'essa deriva; e da ultimo si oppone a ciò la estrema difficoltà di obbedire quell'antico precetto: Conosci te stesso! — Chi osa confessare od anche solo creder sé piccolo di cuore? Bisogna in verità uscire con un salto da questi ragionamenti che sono un perpetuo laberinto di circoli viziosi, e dai quali null'altro è messo in chiaro, senonché per le indoli forti e superiori sono più numerose e fatali le occasioni di sventura pei disinganni e le miserie preparate loro dalla vana fiducia degli inferiori. Pieghiamo sì il capo adorando dinanzi a questi misteri dai quali rifugge il sentimento della giustizia. Ma pensiamo che dentro di noi la giustizia ha un altare senza misteri. La coscienza ci assicura che meglio è la generosità colla miseria che la dappocaggine colla contentezza. Soffriamo adunque, ma amiamo. La Doretta di Venchieredo non sembrava certamente fatta per appagare l'animo grave caloroso e concentrato di Leopardo. Tuttavia fu essa la prima che comandò al suo cuore di vivere e di vivere tutto e sempre per essa. Altro mistero non meno oscuro né doloroso degli altri. Perché chi meglio di lei poteva appagarlo non mosse invece nell'animo di lui alcuno di quei desiderii che compongono o menano all'amore? Sarebbe forse così fatto l'ordine morale, che i simili vi si fuggissero e i contrari vi si cercassero a vicenda? Nemmen questo può affermarsi pei molti esempi che vi si oppongono. Solo si può sospettare che se le cose materiali vaganti confusamente nello spazio soggiacquero da molti secoli ad una forza ordinatrice, il mondo spirituale ed interno aspetti forse ancora nello stato di caos la virtù che lo incardini. Intanto è un contrasto di sentimenti di forze di giudizi; un'accozzaglia informe e tumultuosa di passioni, di assopimenti, e d'imposture; un subbollimento di viltà, di ardimenti, di opere magnanime, e di lordure; un vero caos di spiriti non bene sviluppati ancora dalla materia, e di materia premente a sbaraglio sugli spiriti. Tutto si agita, si move, si cangia; ma torno ancora a ripeterlo, il nocciuolo dell'ordine futuro si è già composto, e ad ogni giorno agglomera intorno a sé nuovi elementi, come quelle nebulose che aggirandosi ingrandiscono, spesseggiano e diminuiscono densità e confusione all'atmosfera atomistica che le circonda. Quanti secoli bisognarono a quella nebulosa per crescere da atomo a stella? Ve lo dicano gli astronomi. Quanti secoli ci vollero al sentimento umano per concertarsi in coscienza? Lo dicano gli antropologi. — Ma come quella stella matura forse agli ultimi e scomposti confini dell'universo un altro sistema solare, così la coscienza promette al disordine interno dei sentimenti un'armonia stabile e veramente morale. Vi sono spazii di tempo che si confondono coll'eternità nel pensiero d'un uomo: ma ciò che si toglie al pensiero non è vietato alla speranza. L'Umanità è uno spirito che può sperar lungamente, e aspettar con pazienza. Ma anche il povero Leopardo, benché non avesse dinanzi la vita dei secoli, dovette aspettar con pazienza primaché la Doretta mostrasse accorgersi delle sue premure e sapergliene grado. La vanità, io credo, fu quella che la persuase. Prima di tutto Leopardo era bello; poi era uno dei più agiati partiti del territorio, e infine le dava tante prove di amore quasi devoto che sarebbe stata vera sciocchezza il non approfittarne. Del resto se egli la divertiva assai volte colla sua semplicità, la ammaliava anche sovente con quel suo fare di animo valoroso e sereno. La si era accorta che mite e tollerante colle donne anche quando si prendevano giuoco di lui, non lo era poi niente affatto verso ai giovinastri lì intorno. Una sua occhiata bastava a far loro calare le ali, e a lei non era piccola gloria l'aver pronto a' suoi cenni chi tanto facilmente frenava la caparbietà degli altri. La Doretta adunque si lasciò trovare sempre più spesso alla fontana; s'intrattenne sempre più amichevolmente con essolui nelle ragunanze festive, e dall'accogliere le sue cortesie al ricambiarle, il tratto fu sì abbastanza lungo, ma dàlli e dàlli ne vennero a capo. Allora Leopardo non si accontentò più di vederla il mattino quando capitava, o le feste in mezzo alla baraonda della sagra, ma tutte le sere andava a Venchieredo e là o passeggiando nel casale o sulla scaletta della cancelleria, s'intratteneva con lei fino all'ora di cena. Allora la salutava più col cuore che colle labbra, e tornavasene a Cordovado fischiando con miglior sicurezza la solita arietta. Così si aveano composto fra loro la vita i due giovani. Quanto ai vecchi era un altro conto. L'illustrissimo dottor Natalino cancelliere di Venchieredo lasciava correre la cosa, perché ce ne aveva veduti tanti dei mosconi intorno alla sua Doretta che uno di più uno di meno non lo sgomentiva per nulla. Il signor Antonio poi, non appena se ne accorse, cominciò a torcer il naso e a dare cento altri segni di pessimo umore. Era egli di ceppo paesano e di pasta paesana affatto; né gli potea garbare quel veder suo figlio bazzicare con gente d'altra sfera. Cominciò dunque dal torcer il naso, manovra che lasciò affatto tranquillo Leopardo; ma vedendo che non bastava, si diede a star con lui sul tirato, a tenergli il broncio, e a parlargli con un certo sussiego che voleva dire: non son contento di te. Leopardo era contentissimo di se stesso e credeva dar esempio di cristiana pazienza col sopportare la burbanza di suo padre. Quando poi questi venne, come si dice, a romper il ghiaccio, e a spiattellargli netta e tonda la causa del suo naso torto, allora egli si credette obbligato a spiattellargli netta e tonda di rimando la sua incrollabile volontà di seguitar a fare come avea fatto in fin allora. — Come? tu, vergognoso, seguiterai a grogiolare dietro quei begli abitini? E che cosa ne diranno in paese? E non t'accorgi che i buli di Venchieredo si prendono beffa di te? E come credi che andrà a finire questo bel giuoco? E non temi che il castellano una volta o l'altra ti faccia cacciare dai suoi servitori? E vorresti forse mettermi in mal sangue con quel signore che sai già quanto sia schizzinoso?... — Con queste e simili interrogazioni il prudente uomo di Comune andava tentando e bersagliando l'animo del suo Assalonne; ma questi se ne imbeveva di cotali ciancie, com'ei le chiamava; e rispondeva che era pur un uomo come gli altri, e che se voleva bene alla Doretta non era certo per ridere o per piantarla lì al motteggio del primo capitato. Il signor Antonio alzava la voce, Leopardo alzava le spalle, e ognuno rimaneva della propria opinione; anzi io credo che questi diverbi stuzzicassero non poco l'animo già abbastanza incalorito del giovine. Peraltro indi a poco si venne a capire che il vecchio scrupoloso poteva non aver torto. Se la Doretta faceva sempre al suo damo le belle accoglienze, tutti gli altri abitanti di Venchieredo non si mostravano dell'ugual parere. Fra gli altri quel Gaetano, che capitanava i buli del castellano e vantava forse qualche vecchia pretesa sulla zitella, non poteva proprio digerire il bel giovine di Cordovado e le sue visite giornaliere. Si cominciò cogli scherzi, si venne poi agli alterchi e finirono una volta col misurarsi qualche pugno. Ma Leopardo era così calmo così deliberato che toccò al bulo il voltar via colla coda bassa; e questa sconfitta sofferta sul pubblico piazzale non cooperò certo a fargli smettere la sua inimicizia. S'aggiunga che la Doretta, più vanagloriosa di

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