Confessioni di un Italiano di Ippolito Nievo pagina 248

Testo di pubblico dominio

ritorno dell'uomo redento. Nessuno qui mi conosce; mi chiamano Aurelio Gianni, un trovatello dell'umanità, un guerriero della giustizia, e nulla più. Cerco i posti più arrischiati, combatto le scaramucce più audaci; ma il cielo mi vede e mi protegge, il cielo che mi darà vita bastevole a rigenerare il mio nome. TONALE, luglio 1848 Suonano tristissime voci; il nostro esercito è in volta; noi sentinelle perdute fra le gole dei monti, difendiamo il confine che ci fu affidato, né chiediamo oltre. Battaglie continue ma senza gloria, patimenti lunghi e ignorati, veglie di mesi interi interrotte da sonni sospesi e da brevi avvisaglie. Cotale era il tirocinio che mi conveniva. Dove la speranza della gloria e l'emozione acuta del pericolo compensano ad usura il sacrifizio della vita, non è il luogo di chi cerca penitenza e perdono. Ma qui sopra queste erte montagne che si avvicinano al cielo, in mezzo ai burroni profondi e ai fragorosi torrenti, qui vengono i peccatori a cercar Iddio nella solitudine, qui salgono i soldati della libertà alla redenzione del martirio. Dopo aver combattuto nelle prime file d'una giornata campale, dopo aver piantato uno stendardo sul bastione nemico, dopo aver ributtato la carica dei lancieri, e gridato l'urlo della vittoria sui cannoni inchiodati, chi sarà tanto prosuntuoso da dire: io ho ben meritato dalla patria, datemi la corona di quercia? La ricompensa è nella grandezza, nella fama dell'impresa. Ringraziate, o vincitori, la patria che vi diede occasione di mostrarvi valorosi, e di pregustare la gioia del trionfo. Non chiedetele corone, ma porgete riverenti i vostri trofei. Le corone sono per coloro che senza l'applauso degli spettatori, senza la speranza della gloria, senza l'avidità del trionfo combattono pazienti e ignorati. Posterità servile ed ingrata che da tanti secoli t'imbratti i ginocchi dinanzi alle statue di Cesare e d'Augusto, sorgi una volta, e incurvati ad adorare le larve sanguinose dei Galli e dei compagni d'Arminio. Non la fama ma la virtù comanda gli ossequi; la magnanimità che s'asconde sotto le ombre pugnaci delle selve eclissa col suo splendore quella che passeggia tronfia e baldanzosa le strade di Roma. Anco una volta gli uomini sono ingiusti: ma Dio, signore del premio e del castigo, siede nella coscienza. LUGANO, agosto 1848 Pur troppo era vero. Eccoci ora fuggiaschi senza sconfitta, come fummo prima vincitori senza trionfo. Ci avevano annunziato una guerra di disperazione e di sterminio; invece un passo dietro l'altro, oggi valicando un fiume domani una montagna, il volere dei capi ci ritrasse a questi alpestri ripari. Suonarono al solito voci di tradimento: tradimenti involontari come il mio, di uomini che non disprezzarono, ma stimarono troppo. Ma è questo il consueto conforto dell'umana debolezza di scaricarsi delle proprie colpe sulle spalle altrui. Intanto io che aveva sperato un assalto disperato e glorioso, una morte o un trionfo che compissero la redenzione del mio nome, eccomi riconfitto alla pazienza dei taciti sacrifizi e delle lunghe aspettazioni. Deggio attendere da un dolore senza fine quello che sperava da una sùbita vittoria. Espiazione anche questa. Lo ripeto; il sacrifizio, fosse pur quello della vita, non ricompera nulla senza la prova della costanza. Finire non è redimere; fra compassione e gratitudine corre l'ugual tratto che tra colpa perdonata e perdono meritato. Soffrirò dunque ancora colla ferma coscienza che la Provvidenza mi apre la miglior via a provare con argomenti invincibili se non la giustizia certo la purezza del mio passato. Nei patimenti, vivaddio, io non ho bisogno di ritemprarmi; ma avrò la forza di tacere, finché mi venga incontro spontanea la stima dei miei fratelli. GENOVA, ottobre 1848 Era impaziente di combattere, non per giovanile baldanza ma perché temeva che mi fosse apposto a infingardaggine il forzato riposo. Ma qui pure si va per le lunghe, e forse non hanno torto. Si ricordino che chi presume troppo è chiamato poi traditore, al pari di chi fugge nel momento del pericolo. Grande stupidità è la nostra di misurare la vita dei popoli da quella degli individui; i popoli devono, perché possono, aspettare; lo possono perché hanno dinanzi non venti trenta o cinquant'anni, ma l'eternità. Io stesso fin'ora avrei voluto sacrificare la sorte della nazione alla mia smania di menar le mani; ma non ricadrò in questo errore che par generoso ed è pazzo disperato vile. Finché i nostri desiderii non concorderanno appunto colla moderazione e coll'opportunità della vera sapienza le imprese cadranno o in eccesso o in difetto. Impariamo ad aspettare pazientemente per non aspettar lungamente. Così negli avvenimenti che consentono la deliberazione; ma quando il dado è gittato, quando l'onore è in ballo, si gettino allora peritanze scrupoli timori. Allora è concesso anzi imposto di mutarsi da soldati in vittime; allora son proibiti i postumi rincrescimenti, le scambievoli rampogne; allora il sacrifizio è una necessità non una speranza. Dove si accenda la prima miccia io volerò colla mia carabina: non affretterò mai lo scoppio, ma farò mio il pericolo. Qui alcuni esuli delle provincie venete, compagni di scuola o di stravizzo, credettero riconoscermi. Ghignarono fra loro senza peraltro affrontarmi; ma al giorno dopo li rividi, e diedero segnali piuttosto di stupore d'ammirazione che di sprezzo. Pareva che avessero indovinato il mio disegno, e lo rispettassero. Seppi dappoi che aveano chiesto di me ad alcuni commilitoni, i quali avevano detto loro il nome col quale mi conoscevano, e fatta ampia testimonianza del valore dimostrato nelle fazioni montane del Tirolo e del Varesotto. Lì fra quei profughi era sorto un diverbio; ché alcuni affermavano ch'io era Giulio Altoviti ed altri no; e taluno dei primi mormorava della dubbiezza della mia fede, e dell'obliqua condotta, ma i miei compagni d'arme sorsero fieramente a difendermi, dicendo che Altoviti o Gianni, io era per fermo un valoroso soldato, un uomo integro e leale. Giuseppe Minotto, uno di quei veneziani, approvò le parole di questi e persuase i suoi che se io aveva scelto quella via per rintegrarmi nella stima de' miei concittadini bisognava sapermene grado, e che l'aver io risposto all'insulto con imprese forti e magnanime era già validissimo indizio a ritenermi innocente. Io ringrazio questo generoso a me appena noto per figura, di aver innalzato la voce a difendermi fra molti che pochi mesi fa mi si professavano amici. Infatti le sue parole poterono assai, e ad esse devo il guardingo ma nobile rispetto di cui son ora circondato. Cercherò di rendermene degno e saprò grado alla Provvidenza di questi primi conforti ch'ella mi porge a proseguire animoso il mio intento. Due giovani Partistagno che hanno combattuto valorosamente a Vicenza nell'aprile decorso, erano il primo giorno i miei più accaniti detrattori; ma in seguito mi spiavano più vogliosamente degli altri, e pareva quasi bramassero di rappiccare la vecchia amicizia. A me non istava correr loro incontro; li aspettai. Ma oggi sento che partirono per Torino, ove si stanno ordinando alcuni reggimenti lombardi. Anch'io ebbi il ticchio di accorrer colà, e d'inscrivermi in quelle schiere; ma la modestia m'impose nuovamente di non far pompa del mio valore; fors'anco fui consigliato da un resticciuolo d'orgoglio a non esporre la mia penitenza agli sguardi dei conoscenti e degli amici. Parrebbe ch'io chiedessi il perdono delle colpe che non ho; mentre voglio meritarlo di quelle che ho, e pretendo insieme riparazione delle altre iniquamente imputatemi. IN MARE, dicembre 1848 Per te, padre mio, per te soltanto io mi tolsi di scrivere questi cenni della mia vita. Acciocché se morissi lontano, tu abbia in quelli una prova che al tutto non fui indegno del nome che porti, e ch'io riprenderò nel sepolcro, o tornando ribenedetto fra le tue braccia. Oh come nei primi giorni d'esiglio mi pesò grave sul capo il sospetto della tua

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Argomenti: vita bastevole,    posterità servile,    consueto conforto,    giustizia certo,    giovanile baldanza

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